Hugo Cabret, il ragazzo che aggiustava orologi (e uomini…) M.Scorsese, Hugo Cabret, 2011

del Prof. Lucio Celot

A margine del primo incontro del progetto “ABCinema” tenutosi presso il liceo “Galilei” di Napoli, capofila del progetto, la mia recensione (di qualche anno fa, in verità…) del film di Martin Scorsese Hugo Cabret, su cui si è soffermato il prof.Vincenzo Esposito, docente del corso (qui un breve sunto della lezione).

Ci sono – tra le altre – due scene di Hugo Cabret per cui il film varrebbe la pena di essere visto: nel primo, la giovane Isabelle promette a Hugo di portarlo nel posto più bello del mondo… e lo conduce per mano in una libreria; nel secondo, Hugo chiede a Isabelle se desidera vivere un’avventura, e la fa entrare di nascosto in un cinema dove si sta proiettando una comica di Harold Lloyd appeso ad un orologio e sospeso sul vuoto…

Era stato Francois Truffaut a dire che i libri e il cinema gli avevano salvato la vita; è presumibile che lo stesso sia stato per Martin Scorsese, destinato, se il cinema non lo avesse stregato fin da piccolo, a diventare prete o gangster (nessuno me ne voglia per l’accostamento…). Così, Scorsese ci regala una vera e propria “autobiografia poetica”, una storia di formazione in cui il giovane protagonista cerca il proprio senso e il proprio posto nel mondo, affermando che “se il mondo è un immenso meccanismo, allora ogni parte di esso deve necessariamente servire a qualcosa”, persino lui, povero orfano ridotto a vivere nascosto all’interno dei labirintici meandri della stazione ferroviaria di Montparnassenella Parigi della fine degli anni ‘20 del secolo scorso. Abilissimo ad aggiustare ingranaggi che si sono rotti e a controllare che i numerosi ed enormi orologi della stazione continuino a funzionare (il padre, morto in un incidente, era un orologiaio che ha insegnato al figlio il mestiere), il ragazzo deve nascondersi continuamente dall’Ispettore ferroviario Gustav che gode ad arrestare piccoli orfani per poi inviarli impietosamente in qualche spaventoso istituto per minori abbandonati. Il destino farà incontrare ad Hugo niente meno che Georges Méliès, il primo vero regista della storia del cinema, l’inventore della fantascienza (suo il celebre Viaggio nella luna, con il razzo che colpisce il satellite in un occhio…) nonché della tecnica del montaggio. Dimenticato dal grande pubblico che lo aveva seguito a cavallo tra due secoli, amareggiato da un mondo “che ha visto troppa realtà e non sa più che farsene della magia e dell’illusione”, Méliès (un grande Ben Kingsley) vive in ritiro le sue giornate tra il negozio di giocattoli della stazione dove vive Hugo e la moglie e la figlia adottata, Isabelle. Diventati compagni di avventure, Hugo e Isabelle, per il tramite di un misterioso automa che Hugo ha ereditato dal padre e che ostinatamente cerca di rimettere in funzione, ridaranno al vecchio Méliès il posto che giustamente gli appartiene nella storia della settima arte.

Un film sulla magia del cinema come illusione, dunque. Il che spiega la scelta di Scorsese del 3D, cosa che all’inizio ha lasciato un po’ perplessi i puristi cinefili: la vicenda professionale e umana di Méliès, lo sguardo enigmatico e oscuro dell’automa (riferimento  a Metropolis di Fritz Lang), gli ingranaggi e le ruote dentate di varia foggia e dimensioni che appaiono nel film sono tutti elementi per mezzo dei quali Scorsese ripercorre l’età dell’oro del cinema (senza volerla contrapporre ad una presunta decadenza del presente), quella degli inizi, in cui la nuova arte, come i treni che arrivano e ripartono dalla stazione, è in perenne movimento, alla ricerca di strumenti e mezzi che sempre di più e sempre meglio proiettino lo spettatore nel futuro della modernità.  Gli occhi sgranati di Isabelle mentre guarda – tra il preoccupato e il divertito – Harold Lloyd che rischia di precipitare dal grattacielo sono esattamente questo: la meraviglia e lo stupore di fronte ad uno strumento assolutamente nuovo e seducente, che schiude all’immaginazione umana possibilità infinite.

Hugo aggiusta orologi e meccanismi: è una sorta di “signore del tempo” che può fare avanzare o retrocedere le lancette di complicati orologi; ma lo è anche perché fa ritornare letteralmente a vivere il vecchio Méliès, (“è un uomo che si è rotto”, viene detto a un certo punto), i cui film verranno finalmente recuperati e proiettati in una retrospettiva a cura di un giovane professore che al vecchio maestro deve l’amore per il cinema. Hugo Cabret è, insomma, la poetica dichiarazione d’amore di Scorsese alla magia del cinema, il bilancio di una vita dedicata a dare corpo e vita ai sogni di ognuno di noi. Negli azzurrissimi occhi spalancati di Hugo c’è tutto lo stupore che spesso il tempo ci ha rubato ma che sullo schermo, per fortuna, ritroviamo intatto.

Lucio Celot

Martin Scorsese, Hugo Cabret, 2011

Per un’analisi più approfondita, si veda il numero 76 (aprile-maggio) della rivista “Duellanti” (purtroppo, non più online)…

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