La storia del ragazzo senza sonno

di Flaminia Pannone III F

Di recente mi è capitato di leggere, un po’ per curiosità e un po’ per noia, un libro diverso dal solito.
Il romanzo, scritto da Daniele Selvitella (in arte Doesn’t Matter), come si può evincere dal titolo, parla di questo giovane ragazzo che tentò di sfidare il sonno.
L’argomento, per chiunque mastichi un minimo di storia americana nel periodo della guerra fredda, risulterà già noto.
Non si può dimenticare infatti l’impresa dell’allora diciassettenne Randy Gardner, che riuscì a non dormire per ben undici giorni, con lo scopo di dimostrare quali fossero le conseguenze dell’assenza di sonno sul nostro corpo.
E, sebbene non ci furono conseguenze permanenti di una certa rilevanza di tipo psichico, le complicazioni fisiche, anche se temporanee, non tardarono a manifestarsi: allucinazioni, annebbiamento della vista, sbalzi d’umore ecc.
Il sonno dunque, per quanto anche nel libro citato prima sia considerato una perdita di tempo considerevole (prendendo in prestito le parole dello scrittore: “dormendo otto ore al giorno, su una vita media di 80 anni ne viviamo appena 53… quanto un uomo del medioevo in pratica!”), è una componente irrinunciabile delle nostre vite, e già in epoche antiche se ne notava l’importanza.
Nell’antica Grecia veniva addirittura rapportato alle divinità, ritenendolo “Signore a cui non sanno resistere né gli uomini né gli Dei”.
Sin dagli albori delle civiltà questa tematica suscitò grande interesse, venendo inizialmente confusa dai pre-Socratici come uno stato intermedio fra la veglia e la morte, uno stato in cui quindi ci si avvicinava di più alla divinità.
Il primo a sistematizzare le varie osservazioni sul sonno fu però Aristotele, il quale localizzò i meccanismi della veglia e della percezione nei centri del cuore e in accordo con la scuola ippocratica riteneva che il sonno fosse provocato dai vapori caldi che salivano dallo stomaco.
Sarà poi Galeno a teorizzare che questo fenomeno fosse piuttosto da collocare in una determinata area del cervello.
Senza stare qui però ad annoiarvi con paroloni tecnici da ricerca scolastica, ci terrei piuttosto a farvi riflettere su cosa potrebbe significare vivere la nostra esistenza senza dover mai provare stanchezza: potremmo lavorare meglio e per più ore, laurearci più rapidamente… sì, ma poi?
Davvero sarebbe tanto meglio vivere appieno quelle otto ore in più ogni giorno?
Se per i Greci, che di cose sagge ne hanno dette, il sonno era così importante, perché non deve esserlo anche per noi?
Personalmente vedrei come un gran problema dovermi preoccupare di gestire ore aggiuntive alle mie giornate facendole diventare interminabili…
Fortunatamente non abbiamo questo genere di problemi, quindi andrò a dormire e lascerò a voi le riflessioni.
Buonanotte.

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