Viaggio al termine della notte losangelina – Collateral (M.Mann, 2004)

del prof. Lucio Celot

Vincent (Tom Cruise) è un uomo estremamente abile e affidabile nel suo lavoro, è professionale, freddo, possiede molta esperienza sul campo insieme ad un’eccezionale capacità di adattamento alle diverse situazioni lavorative in cui si imbatte che gli consentono di portare sempre a termine con successo gli incarichi e per questo è apprezzato nel suo ambiente ed è molto richiesto: Vincent è un killer, un sicario a pagamento che viene inviato a Los Angeles per uccidere in una sola notte cinque testimoni chiave di un processo che, evidentemente, i suoi mandanti non vogliono che si celebri. Lo schema di lavoro di Vincent è semplice quanto efficace: si farà portare da un taxi presso le cinque abitazioni dei bersagli e, uno dopo l’altro, li ucciderà. Poi, liquiderà anche il tassista per fare ricadere su di lui la responsabilità dei delitti. Semplice, pulito, efficace.

Max (Jamie Foxx) è il tassista che, casualmente, prende a bordo dell’auto Vincent: è un mediocre, un hollow man, come avrebbe detto Eliot, un uomo che da dodici anni fa quel lavoro continuando a dirsi che è solo temporaneo, perché il suo sogno è quello di avviare un’impresa di affitto di limousine di lusso per una clientela facoltosa. La sua vita è sospesa tra l’alienante routine del lavoro, la visita quotidiana alla madre malata, uno sguardo furtivo durante le pause alla foto dei mari del sud che tiene nascosta sul parabrezza: la sua piccola dose di sogno quotidiano. La giornata di Max si avvia alla conclusione e promette bene perché un’avvenente avvocato (Jada Pinkett Smith) gli ha lasciato un biglietto da visita con il proprio numero di telefono. La lunga notte insieme a Vincent sarà per Max un viaggio iniziatico al termine del quale dovrà, necessariamente, porre fine al suo amletico immobilismo e agire di conseguenza.

Michael Mann ci ha abituati, nella sua poco prolifica filmografia, ad un cinema fatto di scontri, duelli, sfide, un cinema “bipolare” e oppositivo in cui ad affrontarsi sono sempre uomini che, pur nella diversità, si scoprono reciprocamente complementari: basta ricordare qui Manhunter (1986), con l’agente Graham che dà la caccia al serial killer soprannominato “Fata dei Denti” e, soprattutto, Heat – La sfida (1995), con due giganti del calibro di Al Pacino e Robert De Niro (che, guarda caso, Mann decide di non fare mai entrare nella stessa inquadratura). Vincent e Max non fanno eccezione, quello che si stabilisce tra i due nella lunga e violenta notte di L.A. è un rapporto ambiguo, in cui la fa da padrona la logica del doppio e dello specchio: Vincent è lo straniero “venuto dall’alto” (lo vediamo arrivare all’aeroporto, non sappiamo nulla di lui, della sua storia), è l’angelo sterminatore che si abbatte su Babilonia (i suoi bersagli sono tutti dei poco di buono), è l’uomo votato all’azione, nichilista, freddo, calcolatore e cartesiano; etimologicamente (vincit-ense, “vince con la spada”), il suo nome significa Vindex, il vendicatore, colui che ristabilisce un ordine cosmico infranto; è bianco, ricco, cinico e assassino; Max (anche di lui non sappiamo nulla, sbuca dalla notte con la sua auto) è l’uomo comune/mediocre, amletico nella sua perenne indecisione e incapacità di dare una svolta alla propria vita; porta un nome che è ironicamente opposto alla sua condizione di insicurezza e provvisorietà causata da una sostanziale mitezza e propensione al sogno; è nero, certamente non ricco, votato all’inazione. Del tutto privo di passioni, Vincent ammette di non sapere perché uccide proprio quelle persone; il suo rapporto con le vittime è di lavoro, impersonale, solo un insieme di coordinate segnalate dal suo portatile; ha una precisa identità, una visione nichilista del mondo in cui nulla ha senso; per Max fare il tassista è solo un’occupazione temporanea in attesa di riuscire a realizzare il suo sogno: gestire una linea di splendide limousine che rendano il viaggio un’autentica vacanza. Un’attività temporanea che dura però da dodici anni, e non è difficile ipotizzare che il sogno per Max abbia soprattutto l’effetto di estraniarlo dalla quotidianità, esigenza rappresentata anche dal suo costante guardare la cartolina di un’isola esotica: una forma di sollievo e di vacanza.

Eppure, prima del quarto omicidio, succede l’impensabile: nella scena più convenzionale del film, che si svolge in un’affollata discoteca, Max dovrà impersonare Vincent davanti a Felix (Xavier Bardem), il mandante, perché il pc del sicario con i dati delle vittime è andato distrutto. È questo il turning point del film: messo alle strette, Max diventa Vincent, assume su di sé il proprio dark side, fa i conti con il materializzarsi e venire alla luce del proprio Es; e, reciprocamente, nella furibonda sparatoria in cui culmina la sequenza, Vincent salva la vita a Max e i due ripartono per l’ultimo tratto del loro viaggio, quello in cui il confronto dialettico e filosofico lascia il posto, come in ogni noir che si rispetti, all’inevitabile e conclusivo scontro fisico. Vincent e Max, in fondo, sono uguali, intercambiabili: sono entrambi mossi da una rigorosa e ossessiva etica del lavoro, quasi calvinista, che dà una fisionomia tutta particolare al rapporto cacciatore-preda.

Infine, la città, Los Angeles, la terza protagonista del film: La città è il luogo noir per eccellenza […] luogo di perdizione e di violenza, in cui trionfano le merci, il denaro […] labirinto notturno, costellazione di spazi seducenti e minacciosi, luogo di inganni e di corruzione in cui perdersi, scrive Renato Venturelli. E Mann rivela che volevo raccontare una storia che evocasse la giungla nascosta appena sotto la superficie della grande città, e ci riesce utilizzando per la prima volta nella sua filmografia una mdp digitale ad alta risoluzione, riprendendo spesso le strade e i totali dall’alto. La luce della notte losangelina, così, diventa sgranata, l’aria è sporca, le goccioline di umidità sospese gravano sulle vite degli uomini; niente sole, niente spiagge, niente corpi abbronzati, solo la luce fredda e metallica dei lampioni e delle insegne. Memorabile la scena in cui, improvvisamente, un coyote attraversa la strada davanti al taxi di Max: è un momento di sospensione, di sorpresa in cui tutto si ferma, di sguardi tra l’uomo e l’animale, dell’emergere dal tessuto cancerogeno della metropoli di un elemento naturale, libero, selvaggio. È la sequenza che meglio riassume tutto il senso della storia e la relazione tra Vincent e Max, ma è solo un attimo: la sospensione del tempo e dello spazio prelude solo all’improvvisa accelerazione che porta, all’alba, alla conclusione della storia dentro un vagone della metropolitana. Il cerchio si chiude: a Vincent non piace L.A. perché, dice, è il senza-limite, un luogo in cui è facile smarrirsi, in cui vivono diciassette milioni di persone in perfetta solitudine, dove puoi morire in metropolitana e passano ore prima che ti scoprano. Chi l’avrebbe mai detto, un tassista freudiano e un killer filosofo cartesiano…

 

Collateral (id.)

Regia: Michael Mann

Distribuzione: USA 2004 (col., 120 min.)

 

Sulla relazione “freudiana” tra Max e Vincent abbiamo preso spunto da U.Curi, Un filosofo al cinema, Bompiani 2006, pp.139-144; la citazione di R.Venturelli è tratta da L’età del noir, Einaudi 2007.

 

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