“Norwegian Wood”, Murakami: Recensione

di Valentina Salatiello (IIIA)

“Norwegian Wood” è un inno alla vita condotto attraverso una rappresentazione angosciosa e travolgente della morte, che governa e avvolge l’ambientazione di questo romanzo, ossia il Giappone degli anni ‘60, quando il Paese del Sol Levante entra a contatto e si rispecchia sempre più con la cultura occidentale, senza, però, perdere quella identità genuina che lo ha sempre caratterizzato. Del Giappone si respira tanto in questo libro, a partire dai luoghi, passando per i cibi, fino ad arrivare al drammatico e più che mai attuale tema del suicidio, che travolge inesorabilmente Kizuki, migliore amico del protagonista, la cui scomparsa determina cambiamenti radicali nel personaggio principale Watanabe Toru, diviso tra due ragazze, Naoko e Midori, che suscitano in lui sensazioni tanto intense quanto differenti. Paragonabile alla figura dell’inetto, incapace di prendere consapevolezza della realtà e agire di conseguenza, Toru procede come impantanato nel fango e sembra segnato per l’eternità da una tragicità che coinvolge ogni aspetto del romanzo.

 “La morte non è l’opposto della vita, ma una sua parte integrante”, questa la conclusione cui giunge il protagonista dopo che la morte ha fatto irruzione nella sua vita senza alcun preavviso, lasciandolo incapace di fare chiarezza sui suoi sentimenti, di trovare una strada che gli si addica realmente; eppure, alla fine del libro sembra finalmente realizzare che non esiste un approdo definitivo dove essere realmente felici; la vita è ricerca, oscillazione perenne tra equilibrio e follia, un non-luogo (come quello descritto nell’ultima pagina) in cui i sentimenti si diversificano, avvolgono in un groviglio inestricabile e confusionario.

In tutto questo caos, “eravamo vivi, e l’unica cosa a cui dovevamo pensare era continuare a vivere” sono le parole che regnano nella mente di Watanabe alla fine del libro, quando finalmente cessa di preoccuparsi del futuro, di rimuginare sul passato, per concentrarsi sul presente, senza che la vita scorra come un fiume in piena, mentre lui ,immobile, resta a guardare una folla di persone e oggetti muoversi indistintamente nello spazio che lo circonda.

Murakami, autore del romanzo, vi allega una postilla, perché sente l’esigenza di spiegare l’origine di questo lavoro così (apparentemente) diverso rispetto a quelli precedenti. Scrive, infatti, di aver cominciato a comporre a “cuor leggero”, finendo poi per realizzare un romanzo “che è un po’ difficile definire leggero”, forse a causa dell’intima e impellente necessità di scrivere una storia simile. Conclude, infine, specificando che “questo libro è dedicato a tutti i miei amici che sono morti e a quelli che restano”, proprio a sottolineare ulteriormente il marchio ineliminabile lasciato da coloro che ormai hanno abbandonato questa Terra e il proseguimento di una vita che non si ferma, né aspetta, ma esiste solo per essere attraversata con un orgoglio misto a dolcezza, dando vita ad un connubio tanto travolgente quanto delicato, proprio come le qualità distintive delle due ragazze di cui è innamorato il protagonista.

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