ApocalypseVietnam #4: Topolin, Topolin, viva Topolin… – Full Metal Jacket (S.Kubrick, 1987)
del prof. Lucio Celot
Co-sceneggiato da Gustav Hasford (Nato per uccidere), Michael Herr (Dispacci, ne abbiamo parlato qui) e dallo stesso Kubrick, Full Metal Jacket (nome in gergo che indica la pallottola blindata 7,62) è l’ultimo grande ‘Nam-movie insieme a Apocalypse Now di F.F.Coppola. La guerra in assoluto più rappresentata attraverso le immagini, non solo quelle del cinema ma anche quelle dei documentari che la raccontarono quasi in diretta agli americani e al resto del mondo, non poteva non toccare le corde di un cineasta come Kubrick che, giunto alla fine degli anni ’80, aveva attraversato praticamente tutti i generi cinematografici dedicando particolare attenzione proprio al war-movie nelle sue diverse declinazioni (metafisica in Paura e desiderio, antimilitarista in Orizzonti di gloria, satirica in Dottor Stranamore). La guerra, pensava Kubrick, è un soggetto interessante da filmare non per la sua spettacolarità ma in quanto “violenza istituzionalizzata e normata” che consente di focalizzarsi, oltre che sulla contrapposizione tra individuo e nemico esterno, anche sul “nemico interiore”; il war movie, insomma, come occasione narrativa.
Come è noto, Kubrick amava affrontare i generi per decostruirne i meccanismi interni e spiazzare lo spettatore deludendone le aspettative (l’esempio più lampante è sicuramente The Shining, in cui vengono rovesciati nel loro opposto tutti gli stereotipi dell’horror) e FMJ non fa eccezione: il Vietnam simulato da Kubrick alla periferia di Londra non è il Vietnam della giungla lussureggiante, verdeggiante e carica di umidità cui il pubblico era avvezzo ma è una giungla di cemento armato che riproduce la città di Hue (un tempo la splendida capitale del regno Annamita), dove si svolse per circa un mese una delle battaglie più significative dell’offensiva del Têt (gennaio 1968). Kubrick ottenne il permesso di fare della fabbrica in disuso della Beckton Gasworks (un’immensa area industriale in abbandono alla periferia est di Londra) ciò che voleva, non solo di utilizzarla come preferiva ma anche di distruggerla: il complesso industriale, così “modellato” a forza di muri abbattuti con il caterpillar, assomigliava in modo impressionante (così disse Hasford) alle rovine postindustriali della città vietnamita, progettata da architetti francesi e tedeschi, un labirinto fatiscente e instabile di macerie, una foresta di cemento e ferro arrugginito cui Kubrick aveva fatto aggiungere qualche migliaio di palme direttamente importate dalla Spagna. Decisamente una novità per il pubblico, mentre Kubrick, come sempre, guardava oltre, all’urbicidio di tutte le guerre che verranno dopo, da quella nella ex-Jugoslavia fino alle guerre del Golfo, nelle quali le città vengono violentate e stravolte fino a rendere inutili (come accade a Joker e ai suoi compagni) le mappe topografiche poiché le strade sono ingombre di macerie.
Ma FMJ non è solo Vietnam. Il film è, come il libro di Hasford, nettamente diviso in due parti, quasi due film in uno, con una prima parte ambientata in Virginia, nel campo di addestramento di Parris Island dove le reclute vengono plasmate e indottrinate dal sergente Hartmann (interpretato da un vero sergente addestratore del corpo dei Marines) per essere trasformate in macchine da guerra. Spiccano le figure dei soldati Joker (Matthew Modine), ironico e carismatico, e Lawrence, quest’ultimo soprannominato “Palla di Lardo” per la sua mole e goffaggine, imbranato e incapace di svolgere anche il più elementare esercizio ma che si scopre tiratore infallibile. L’addestramento è durissimo, umiliante, il dialogo è all’insegna dell’urlato e del turpiloquio più offensivo, nella brutalità di questo contesto istituzionale i più fragili cedono fisicamente e psichicamente e Palla di Lardo, ormai inviso agli stessi compagni, chiuderà tragicamente la sua breve esperienza nell’esercito USA. Il passaggio alla seconda parte non potrebbe essere più brutale e scioccante, dall’ordine e dalle simmetrie ossessive del campo di addestramento al caos completo del teatro di guerra (sulle note di These boots are made for walking di N.Sinatra): da Da Nang fino a Hue, attraverso un volo in elicottero e una marcia fino ad una fossa comune, la seconda parte si svolge interamente in Vietnam, dove le giovani killing machines scoprono che nulla di quello che gli è stato insegnato sarà loro utile per sopravvivere e dove Joker lavora come reporter per documentare l’offensiva del Têt: mandato in prima linea a Hue insieme al fotografo Rafterman, ritrova alcuni vecchi compagni del campo di addestramento con cui si perde tra le rovine della città, dove un micidiale cecchino, una giovanissima ragazza, tiene sotto tiro l’intero plotone. Sarà Joker, suo malgrado, a chiudere la partita, felice di essere ancora vivo, incosciente e senza paura.
La costante del cinema di Kubrick è, dice Sandro Bernardi, “la ricerca ostinata della contraddizione”. L’uomo kubrickiano si trova costantemente lacerato, tra erotismo e socialità (Lolita), inconscio e famiglia (The Shining), scienza e ignoto (2001: Odissea nello spazio), eguaglianza e divisione in classi (Barry Lyndon); la contraddizione vissuta da Joker è esplicitata dalla scritta born to kill sull’elmetto e dalla spilla con il simbolo della pace appuntata sull’uniforme. Interrogato da un alto (e stupido) ufficiale sul significato di quella duplicità Joker risponde citando Jung, riferendosi, in altri termini, all’archetipo dell’Ombra, quello che secondo lo psicanalista svizzero più degli altri affonda le proprie origini nella storia dell’evoluzione, nella componente animalesca dell’uomo, nei suoi istinti vitali, in quei comportamenti negativi che il soggetto tende a rifiutare e nascondere (la figura dell’ombra impersona tutto ciò che il soggetto rifiuta di riconoscere e tuttavia continuamente – in modo diretto o indiretto – gli si impone, dunque, ad esempio tratti inferiori del carattere e altre tendenze incompatibili). Il gesto finale di Joker, che pone fine alle sofferenze del cecchino, sancisce il definitivo passaggio del protagonista al proprio lato oscuro, da Joker a Killer. Da questo punto di vista, FMJ è certamente un film sulla schizofrenia, sulla netta separazione di due universi mentali che Joker deve risolvere, non senza ambiguità.
Ma la guerra, quella guerra, non è solo un catalizzatore di energie pulsionali e inconsce; per Kubrick è anche l’occasione per mettere in evidenza come l’esercito sia un dispositivo di controllo (in senso pienamente foucaultiano), macchina e sistema di disciplinamento del corpo e della mente: la prima parte del film mostra i modi con cui quel sistema tenta di creare, attraverso forme di controllo asettiche e rigidamente normate, uomini-macchina, killer pronti a uccidere che si portano a letto il fucile cui hanno dato un nome di donna, “il tuo migliore amico”, come dice il sergente Hartmann istituendo un rapporto strettissimo tra fucile e membro maschile (con questo ammazziam e con questo chiaviam…). Eppure, nella seconda parte della pellicola, il meccanismo si inceppa (come l’arma di Joker), si rivela in tutta la sua fragilità: davanti alla guerra vera, non solo simulata, che mostra tutto il suo orrore, il plotone si perde, non solo letteralmente, nel labirinto di Hue (Joker ha in mano una mappa non aggiornata) ma anche metaforicamente, prima davanti alla morte di Cowboy e dei compagni colpiti dal cecchino, poi di fronte al senso di assurdo e di spaesamento nello scoprire che il temibile nemico che li ha tenuti sotto scacco altri non è che una ragazzina adolescente. La guerra del Vietnam come smarrimento, di Joker, del plotone, della macchina da guerra USA, della politica occidentale. E questo senso di spaesamento è ulteriormente rafforzato, come in Arancia Meccanica, dall’uso straniante della colonna sonora nelle sequenze di combattimento, composta da canzoni di successo degli anni ’60, dalle Dixie Cups ai Trashmen fino a Nancy Sinatra, Sam the Sham e i Rolling Stones.
Lo “sgradevole realismo” del film, osannato dalla critica, segna il punto di non ritorno del pessimismo antropologico di Kubrick: cosa distingue il soldato Joker, ingranaggio dentro un sistema di violenza istituzionalizzata, da un comune criminale? Con quell’ultima pallottola, Joker ha venduto definitivamente anche la sua anima. Sui titoli di coda, dopo che i soldati americani vanno alla controffensiva cantando Mickey Mouse club song, Mick Jagger canta Paint it, black: proprio vero, FMJ è il film più nero di Stanley Kubrick.
Full Metal Jacket (id.)
Regia: Stanley Kubrick
Distribuzione: USA-UK 1987 (col., 116 min.)
Per saperne di più su FMJ:
M.Guerra, Il meccanismo indifferente. La concezione della storia nel cinema di SK, Aracne 2007;
R.Eugeni, Invito al cinema di Kubrick, Mursia 2017;
E.Ghezzi, SK, Il Castoro Cinema 2007