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ApocalypseVietnam #6: Anime divise nella giungla del Vietnam – Platoon (O.Stone, 1986)

del prof. Lucio Celot

L’inferno è l’impossibilità della ragione

(Chris Taylor)

Io non sono contro nessuno che fa quel che gli si dice;

ma se non è così, il meccanismo si rompe;

e quando il meccanismo si rompe, siamo fottuti anche noi.

E io questo non lo permetto

(sergente Barnes)

Questa guerra la perdiamo.

l’America le ha suonate a tanta di quella gente

che secondo me è arrivato il momento

che ce le suonano a noi

(sergente Elias)

            Vincitore di quattro premi Oscar, viet-movie girato da un regista, Oliver Stone, che in Vietnam c’è stato e dove ha combattuto davvero (e fa anche una particina nelle sequenze della battaglia finale), Platoon è una rappresentazione cruda, potente e personale della sporca guerra in Indocina; non solo un ritratto realistico di quel conflitto ma anche un viaggio interiore nelle anime e nella psiche di chi lo ha combattuto. Come nelle pellicole di Coppola e Kubrick, anche Platoon fa del Vietnam, oltre che un luogo fisico, anche l’archetipo e l’immagine del caos, dello smarrimento e della corruzione morale.

Stone, veterano della guerra, realizza un’opera viscerale e racconta quel caos attraverso gli occhi di Chris Taylor (Charlie Sheen), un giovane volontario, idealista e ingenuo, che si arruola per non sottostare ad una famiglia soffocante e borghese che lo vorrebbe sistemato con una laurea, famiglia, figli e, magari, una bella poltrona da amministratore delegato in qualche società finanziaria in patria. Il plotone di Chris, come l’equipaggio della motovedetta di Willard in Apocalypse Now, è rappresentativo della società multietnica americana e dei suoi conflitti: i compagni di colore di Chris (Manny, Junior, King) fanno gruppo a parte, lamentando costantemente l’insensatezza della loro partecipazione forzata ad un conflitto voluto, gestito e comandato solo da bianchi. Ben presto, il plotone e lo stesso Chris (che, si intuisce, ha rotto i rapporti col padre a causa della sua scelta di arruolarsi) si trovano intrappolati nella brutalità di un conflitto che non è solo fisico, ma soprattutto morale, incarnato da due figure paterne simboliche: il sergente Elias (Willem Dafoe) è un esempio di empatia e etica della compassione, conserva la propria umanità e una coscienza morale anche nell’inferno della guerra; il sergente Barnes (Tom Berenger) è, all’opposto, un soldato-guerriero spietato e cinico, carismatico e pragmatico, disposto a sacrificare codici morali e coscienza pur di sopravvivere. Questa dicotomia, che riflette anche la divisione dello steso plotone in due fazioni, diventa il cuore della narrazione, elemento di tensione continua nonché specchio della frattura morale provocata dall’intera guerra. La sequenza del villaggio di contadini messo a ferro e a fuoco, con le violenze gratuite di Barnes e la zuffa con Elias (qui Stone fa riferimento al massacro di My Lai avvenuto nel marzo 1968), può essere considerata come il turning-point della vicenda, dopo il quale nulla è più lo stesso all’interno della squadra e nell’anima di Chris, fino alla vendetta finale consumata al termine di una battaglia sanguinosa che vede il plotone quasi del tutto decimato dalle truppe del Nord.

Tom Berenger nella parte di Barnes (a sx.) e Willem Dafoe in quella di Elias (a dx.)

La cornice temporale del film è, come in altri viet-movies, quella particolarmente significativa dell’offensiva del Têt, il capodanno vietnamita, scatenata dall’esercito del Vietnam del Nord a fine gennaio 1968: in un momento dell’anno considerato tacitamente da entrambe le parti come periodo di tregua, Ho Chi Min decise invece di lanciare un attacco di massa contro gli americani che, inizialmente impreparati, subirono perdite consistenti (a Hue e Khe Sanh); solo successivamente, con l’impiego massiccio dell’aviazione, riuscirono a respingere l’avanzata dei Vietnamiti. Tecnicamente, l’offensiva del Têt segnò una sconfitta per l’esercito del Nord; sul piano della propaganda, fu un grande successo per Ho Chi Min perché ribadì, una volta di più, che l’indomito popolo vietnamita mai e poi mai si sarebbe arreso. Dal Têt in poi, il presidente USA Johnson decise di avviare la de-escalation, cioè il progressivo “disimpegno” americano in Vietnam che avrebbe portato alla pace di Parigi del 1973; il suo successore Richard Nixon, infine, prese atto che quella intrapresa dagli USA era stata una guerra “sbagliata” (discorso alla nazione del 3 novembre 1969).

Sul piano registico, Stone rappresenta il Vietnam come un labirinto di fango, sudore e terrore. Girato nelle Filippine, il film ricrea con grande precisione l’asfissiante atmosfera della jungla vietnamita, un luogo in cui la natura sembra stessa schierarsi contro i soldati. Il lavoro del direttore della fotografia gioca un ruolo fondamentale nel trasmettere il senso di oppressione e disorientamento: i colori saturi e il costante utilizzo della luce naturale danno vita a un ambiente ostile e claustrofobico, dentro il quale si muovono come fantasmi silenziosi i soldati di Hanoi. Stone utilizza anche la camera a mano per rendere le scene di combattimento più dinamiche e caotiche; il montaggio serrato, che valse un Oscar al film, riflette la frammentarietà dell’esperienza di una guerra “asimmetrica” dentro una giungla che diventa simbolo della discesa nell’inferno interiore (come era stato per il Marlow di Cuore di tenebra e il Willard di Apocalypse Now). Mentre Kubrick in Full Metal Jacket utilizza l’ambiente urbano per evidenziare il disorientamento dei soldati, Stone si affida alla natura incontaminata: la giungla vietnamita è un’entità viva, soffocante, in grado di distruggere sia fisicamente che mentalmente. Ogni soldato è costretto a confrontarsi con i propri demoni e, come Taylor, deve fare i conti con la perdita di innocenza che, a ben guardare, è uno dei temi portanti della pellicola. La scena iconica in cui Elias, ferito e abbandonato, alza le braccia al cielo prima di essere ucciso è un esempio perfetto dell’uso simbolico dello spazio e della luce: la natura diventa il palcoscenico di un martirio, Elias assume una dimensione e un’aura quasi sacrali. La sequenza, giustamente celebre e sottolineata dal Requiem di Samuel Barber (Adagio for strings), si “riappropria” di un’immagine fotografica di A.Greenspon, scattata nell’aprile del 1968: Platoon è, più degli altri, un film nel quale Stone sceglie consapevolmente e sistematicamente (come è evidente dalle due immagini più sotto) di fare “migrare” la guerra giornalistica e le immagini di repertorio che si erano accumulate per undici anni negli archivi fotografici e televisivi.

La foto di A.Greenspon, 1 aprile 1968…
…e la morte di Elias in Platoon

            La cifra di Platoon è, dunque, una narrazione a carattere fortemente etico-umanitarista, in cui la rappresentazione del soldato è quella, in ogni caso, della vittima: lo stesso Chris, che pure tornerà a casa illeso, è il riflesso di una generazione che ha perso se stessa nel caos della guerra e porterà per sempre dentro di sé i segni indelebili di un percorso di formazione che l’ha vista “combattere per la propria anima”.

Platoon (id.)

Regia: Oliver Stone

Distribuzione: USA 1986 (col., 120’)

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