Di chi è l’occhio che ci spia? – Niente da nascondere (M.Haneke, 2005)

del prof. Lucio Celot

Il Cinema, a ben pensarci, è come l’uomo: quando si fa adulto comincia a riflettere su di sé, sulla propria autentica natura, su ciò che lo qualifica in quanto tale. Nel caso della Settima Arte, l’oggetto di quest’autospeculazione non può che essere l’atto stesso del vedere, la “logica scopica” sottesa al prodotto audiovisivo. Che cosa sono La finestra sul cortile (A.Hitchcock, 1954), L’occhio che uccide (M.Powell, 1960), Blow Up (M.Antonioni, 1966), giusto per citare i classici più famosi (ma il catalogo è molto ampio e arriva fino al terzo millennio), se non un’indagine sui meccanismi della percezione visiva e sulle conseguenze del “vedere” per le nostre vite? E, dunque, come potrebbe il cinema non riflettere, oggi, sui dispositivi di controllo dei sistemi di videosorveglianza che onnipervasivamente scrutano e spiano i nostri spostamenti e invadono la nostra privacy? Anche qui l’elenco è generoso: dal seminale Osterman Weekend (S.Peckinpah, 1983) a The Truman Show (P.Weir, 1998) e Panic Room (D.Fincher, 2002) per fermarci ai titoli più noti.

Michael Haneke, maestro riconosciuto della cinematografia austriaca ed europea, nel suo Caché (letteralmente, “nascosto”, tradotto in italiano con Niente da nascondere, un rovesciamento tanto sensato quanto intrigante e attinente alla trama) sovrappone alla riflessione sullo sguardo invasivo dei dispositivi del disciplinamento sociale il tema della decadenza dell’occidente attraverso una vicenda di disgregazione psicologica e familiare in un contesto alto-borghese. Georges e Anne sono due parigini, lui lavora in televisione e conduce un programma di critica letteraria, lei è redattrice in un’importante casa editrice; hanno un figlio preadolescente, Pierrot. Il tranquillo ménage familiare subisce una brusca incrinatura quando a casa dei due iniziano ad arrivare delle cassette VHS che riprendono l’esterno della loro abitazione, accompagnate da truculenti disegni che sembrano venire dalle mani di un bambino. Georges inizia a sospettare che il responsabile sia Majid, un algerino figlio dei domestici dei genitori di Georges, rimasto orfano durante il periodo della Guerra d’Algeria e che gli stessi genitori di Georges avrebbero voluto adottare. Riuscito a rintracciare Majid grazie all’ennesima videocassetta recapitatagli, il protagonista deve fare i conti con un episodio della sua infanzia che aveva rimosso le cui conseguenze irrompono drammaticamente quarant’anni dopo con esiti imprevedibili.

“Cinema della minaccia”, “cinema dell’impassibilità”: così è stata definita l’opera di Haneke con riferimento ai temi e allo stile che contraddistinguono i suoi lavori. Minaccia operata dal vuoto morale che affligge la borghesia occidentale, ipocritamente chiusa e confinata nell’ordine di una felicità solo apparente, disposta a erigere barriere e muri contro i nuovi nemici dell’occidente (immigrati, islamici); impassibilità con cui l’occhio del regista fissa quello stesso male di vivere con un rigore e una freddezza distanti e imperturbabili. L’inizio del film è paradigmatico: un lungo piano sequenza – fisso – che inquadra uno stabile in una strada parigina; qualche macchina che sfreccia, qualche passante che attraversa la strada. Crediamo di essere di fronte ad una ripresa oggettiva; poi, non senza qualche attimo di spaesamento, vediamo le immagini iniziare a muoversi in avanti velocemente, attraversate dalle tipiche striature di un nastro magnetico in modalità fast-forward. Dunque, non era l’occhio del regista, non era la mdp a riprendere l’esterno dell’edificio; quell’apparente oggettività si trasforma in uno sguardo soggettivo, quello di Georges e Anne (nonché il nostro) che stanno guardando, nel loro salotto, la cassetta. Le domande da cui si sviluppa la trama sono, dunque: “Chi guarda?” e “Perché?” e, come nella tragedia greca, il desiderio di conoscenza di Georges porterà al dramma e alla scoperta di un “peccato originale” (la guerra d’Algeria, l’imperialismo occidentale, il comportamento di Georges bambino) destinato a infrangere il fragile equilibrio di una vita borghese apparentemente solida e pacificata.

L’irruzione dell’elemento perturbante (le misteriose videocassette che, in fondo, non mostrano nulla di scandaloso o ignobile) riporta alla luce i ricordi del piccolo Georges, la sua responsabilità (ma si può incolpare un bambino di sei anni?) nell’allontanamento del fratello mancato Majid dalla famiglia che avrebbe potuto adottarlo; la responsabilità, dunque, di avergli negato una possibilità di vita migliore. La cattiva coscienza che riemerge inizia a logorare l’equilibrio di Georges prima e della relazione con Anne poi: tra i due la fiducia inizia a sgretolarsi, le liti si intensificano, la comunicazione si interrompe, così come si complica sempre di più il rapporto con il figlio Pierrot.

Thriller psicologico anomalo, senza omicidi e senza colpevoli, Niente da nascondere è fin troppo chiaro nel suo assunto, e cioè che il disciplinamento sociale operato dalla società dell’immagine ha conseguenze mortali (letteralmente) per la sua subdola capacità di insinuarsi nelle nostre coscienze, incrinare le sicurezze e disgregare identità e relazioni consolidate. L’occhio che guarda e spia l’esistenza di Georges e Anne è un novello Panopticon, non sappiamo chi sia il soggetto che osserva ma solo che siamo spiati: quell’occhio è di nessuno e di tutti, e tanto basta per fare saltare il coperchio che copre il delirio e il senso di colpa al di sotto della tranquillizzante routine delle nostre esistenze.

 

Niente da nascondere (Caché)

Regia: Michael Haneke

Distribuzione: Francia, Austria, Germania, Italia 2005 (col., 117 min.). Disponibile su MUBI.

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