Manipolazione o delirio? Le vite sovrapposte di Chuck Barris – Confessioni di una mente pericolosa (G.Clooney, 2002)

del prof. Lucio Celot

Il nome di Chuck Barris probabilmente non dirà niente a nessuno ma certamente anche chi non ha l’abitudine di frequentare la TV spazzatura conosce titoli come “La corrida”, “Il gioco delle coppie”, “Tra mogie e marito”, programmi campioni di ascolti di una televisione che dall’America è giunta fino a noi a partire dagli anni ’80 insieme alle tivù private e (ahinoi) al berlusconismo. Bene, Chuck Barris è la mente (pericolosa o malata?) che ha ideato e prodotto, in piena Guerra Fredda, quelle trasmissioni televisive, contribuendo a inaugurare il tempo dell’idiozia catodica, della manipolazione della coscienza dell’utente televisivo medio, dell’imbarbarimento culturale delle masse (americane prima, europee in seguito). Ma non basta, perché Barris – manipolatore patologico fino alle estreme conseguenze – scrisse e pubblicò nel 1984 un’autobiografia dal titolo Confessioni di una mente pericolosa, in cui affermava di avere condotto una doppia vita, produttore/conduttore televisivo per la ABC e sicario per conto della CIA, l’Agenzia di Intelligence americana. Barris, nel libro, racconta di essere stato avvicinato da un funzionario della Compagnia (è proprio così, con un sostantivo benevolmente autoassolutorio che tanto i pezzi grossi quanto i manovali-killer definiscono la Central Intelligence Agency) che gli avrebbe proposto di utilizzare la copertura perfetta di personaggio pubblico televisivo per aiutare l’America a combattere contro i suoi nemici. Barris, a suo dire, avrebbe compiuto sia in America che all’estero qualcosa come trentatré omicidi di “nemici della patria”. Ovviamente, la CIA ha sempre categoricamente smentito di avere assoldato Barris, per cui nessuno saprà mai come le cose siano andate davvero (Barris è morto nel 2017).

            L’altro nome sconosciuto ai più è quello di Charlie Kaufman, lo sceneggiatore del film, che da più di un ventennio sforna script fenomenali nella loro bizzarria e cerebralità: da Essere John Malkovich (1999) a Il ladro di orchidee (2002) fino al premio Oscar Se mi lasci ti cancello (2004) e Sto pensando di finirla qui (2020, qui la recensione del nostro Max), le storie di Kaufman hanno una cifra riconoscibilissima e apprezzata da pubblico e critica. Il rifiuto della tradizionale scansione in tre atti della sceneggiatura, la fluidità e instabilità della psiche dei personaggi, le riflessioni metacinematografiche sulla struttura della narrazione, il sovvertimento dei nessi temporali e causali (le “aberrazioni cinematografiche” di cui parlano alcuni critici) fanno della scrittura di Kaufman un unicum nella Hollywood del terzo millennio.

            George Clooney, qui alla sua prima regia, lavora, grazie alla sceneggiatura di Kaufman, su un’idea portante, quella dell’indecidibilità dovuta all’ambiguità del personaggio Barris, interpretato da uno spettacolare Sam Rockwell: la nostra credibilità è messa costantemente a dura prova; la doppiezza di Barris e la sua instabilità psicologica, unitamente al fatto che solo lui è il depositario della verità di tutta la vicenda e, quindi, l’unico narratore sulla cui affidabilità dobbiamo fare conto, spiazzano lo spettatore, chiamato continuamente in causa a mettere assieme i pezzi di un autentico puzzle esistenziale, senza poterne mai avere una visione complessiva chiara e esaustiva. La scelta di Kaufman e di Clooney di sviluppare il racconto attraverso una sorta di autoanalisi di un Barris ormai consumato e chiuso in una stanza in preda a tutti i fantasmi del passato (è irriconoscibile, parla da solo, è completamente nudo, con una barba incolta e occhiaie profondissime), rafforza il dubbio che ci si trovi di fronte ad un uomo che fa della manipolazione in tutte le sue forme una ragione di vita. È questa la cifra del film, il doppio registro che lo caratterizza: la vita pubblica di Barris e la sua (presunta) vita segreta di killer della CIA si sovrappongono perfettamente, egli è un avvelenatore delle menti degli americani e, allo stesso tempo, un assassino prezzolato (che agisce indisturbato proprio grazie alla possibilità di accompagnare all’estero in viaggio-premio i concorrenti televisivi). In ogni caso, un killer; le due professioni si equivalgono. L’America uccide se stessa, oltre che i propri nemici. E il problema che affligge Barris è doppio, la tirannia di cui deve liberarsi è tanto quella della tensione creativa (e degli insuccessi cui va incontro, almeno all’inizio della carriera) quanto quella della sua sottomissione al lato oscuro dell’America, impersonato dallo stesso Clooney che si ritaglia la parte del funzionario che assolda Barris.

            Confessioni di una mente pericolosa vuole anche essere, com’è evidente, una riflessione sulla televisione-spazzatura, riflessione tanto più salutare per il pubblico italiano che, come si diceva all’inizio, ha subito un’autentica mutazione antropologica (l’ennesima, avrebbe forse pensato Pasolini) a partire dagli anni ’80, quando l’etere è stato inondato dalle televisioni private di Berlusconi e tutto è cambiato…in peggio. Esibizionisti, ignoranti, donne e uomini senza qualità, privi di qualsivoglia talento hanno dato vita ad una televisione che ci ha fatto credere che la volgarità, la trivialità e l’ignoranza non solo non fossero ostacoli ma, anzi, un viatico per entrare nel mondo scintillante e rutilante dello spettacolo. Il berlusconismo, insomma, come autobiografia di una nazione (e i risultati li abbiamo visti incarnati nell’ultimo trentennio in una classe politica che definire imbarazzante è eufemistico). Nel caso degli USA tra i ’60 e gli ’80, gli anni in cui si dipana la vicenda raccontata dalla pellicola, Clooney si diverte a mettere in scena l’ingenuità di un intero popolo che in piena guerra fredda ha bisogno di leggerezza, di assenza di pensiero, di evasione dalle proprie responsabilità etico-politiche. La mancanza di identità psicologica di Barris, la sua instabilità psichica, la ricerca esasperata di un’uscita dalla crisi umana e professionale che lo devasta sono lo specchio di un’America che a partire dal coinvolgimento in Vietnam inizia la sua parabola discendente nell’inferno della paranoia e delle teorie del complotto: la cosiddetta “New Hollywood”, con Coppola, De Palma, Pakula, Schrader, Friedkin, Frankenheimer, Lumet produrrà decine di film che scaveranno senza remore dentro questo abisso di degrado.

            Infine, un plauso all’attore protagonista: insieme a Drew Barrymore, Julia Roberts, Rutger Hauer e ai camei di Matt Damon e Brad Pitt, Sam Rockwell dà il meglio di sé e si libera definitivamente dai ruoli secondari da comprimario in cui aveva lavorato fino a quel momento: non a caso, per il ruolo di Barris vinse l’Orso d’Oro a Berlino come miglior attore protagonista. E scusate se è poco.

 

Confessioni di una mente pericolosa (Confessions of a Dangerous Mind)

Regia: George Clooney

Distribuzione: USA 2002 (col., 113 min.)

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