Atychiphobia

di filo-sofia

Atychiphobia – 

Dal latino, la paura del fallimento; di non essere abbastanza.

Gioco con le mani nervosamente mentre la professoressa passa per i banchi, i compiti di ognuno in mano e la solita espressione restia sul volto. Arriva al mio banco, fa un lieve cenno di approvazione con la testa e poi mi consegna il compito: il numero otto, scritto con la penna rossa, spicca in mezzo a una distesa di righi neri e blu. Sorrido soddisfatta – i sacrifici che ho fatto hanno dato i loro risultati. Immediatamente dopo, la mia mente mi rimanda al volto di mia madre. Al naso che le si arriccia, alle labbra che si ritirano dentro il volto, quasi volessero scomparire, alle sopracciglia contratte e la lingua spinta sulla guancia sinistra; ogni volta che le accenno a qualcosa che ho fatto, che essa sia buona o brutta. Il sorriso mi scompare dal volto. Non potrei permettermelo, se non le andasse bene neanche un otto. Non sento che potrei riuscire a sopportare l’ennesimo rifiuto da parte sua; rifiuto nei confronti della sua stessa figlia, sangue del suo sangue, la persona nella quale ha riversato l’intera anima, il sangue e l’energia. Otto è tutto quello che riesco a fare; conosco me stessa e i miei limiti. Appena suona la campanella e la professoressa ci congeda non saluto nessuno – prendo la mia roba, esco velocemente dalla classe e mi dirigo a casa. Mentre cammino per strada, un uccello saetta verso il cielo: lo seguo con lo sguardo, lo vedo salire; alla fine, ho la sensazione di essere più io a precipitare che lui a volare. 

Saluto mia madre con un bacio che lei ricambia, al contrario del solito, affettuosamente. “Che hai fatto oggi a scuola, tesoro?” Non mi guarda mentre parla, è china sul ripiano a fianco al lavandino, a tagliare qualche cipolla. “Uhm, tutto bene. Abbiamo…abbiamo avuto i risultati del compito dell’altro giorno”. Parlo velocemente, un po’ perché ho paura che se parlo piano potrebbe mancarmi improvvisamente il coraggio, un po’ perché spero che lei non mi abbia capito e non mi chieda nemmeno di ripeterlo. E invece mi capisce, e si gira: “Oh,” appoggia una mano sul mobile, iniziando a guardarmi intensamente negli occhi; “E tu quanto hai avuto?” Deglutisco prima di parlare. “Otto. Ma ho preso tra i voti più alti, il compito era difficile e-”

 “E-“ Tutto a un tratto, mi mancano le parole. È come se qualcuno mi avesse appena strappato via le corde vocali, o strangolato così forte che non esce più nessun suono dalla mia bocca. Non ho il coraggio di guardarla, il pavimento della stanza diventa improvvisamente così interessante che non riesco a staccargli gli occhi da dosso. Deglutisco di nuovo, mi passo una mano nei capelli e sento le dita tremare a contatto con la mia pelle. Sospiro, decido di lasciar perdere. A questo punto, sono già pronta a sentire quel suo tono di sufficienza, quasi di disprezzo per la mia inaccettabile mediocrità. Invece, il silenzio è l’unica cosa che riempie la stanza per dei momenti buoni. Dopo un po’, anche quello diventa inaccettabile: alzo lo sguardo, ma lei si è girata di nuovo verso il lavandino e mi dà le spalle. Se ascolto attentamente, riesco a sentire dei singhiozzi strozzati provenire da lei. 

“…Mamma?” 

Sussurro, la mia voce estranea alla mia stessa mente, non la riconosco più. Mi ci vuole poco per realizzare che mia madre sta piangendo di fronte a me e che io non ho la minima idea del perché. Si gira dopo qualche secondo, le labbra le tremano incontrollabilmente e ha la faccia e gli occhi rossi. La pelle d’avorio, lucida per le lacrime, risplende sotto la luce artificiale del lampadario della cucina; il colore violaceo delle occhiaie si è trasformato anch’esso in rosso. Ma c’è l’ombra appena percepibile di un sorriso sul suo volto, un sorriso diverso, un sorriso che non le ho mai visto sfoggiare prima d’ora. “Vieni qui”, sussurra; le braccia aperte e le mani che tremano come le mie. Per un movimento quasi involontario mi alzo dalla sedia e mi fiondo tra le sue braccia. Scoppio a piangere anch’io, ed è strano perché mi trovo in una situazione in cui non avrei mai pensato di trovarmi. Il calore del suo corpo mi avvolge, il suo battito cardiaco, lento, mi calma le paure e chiudo gli occhi mentre la sua mano mi accarezza i capelli. Non so perché è scoppiata a piangere – non so perché io sono scoppiata a piangere. Non so perché ci stiamo abbracciando, non so perché mi sento come se in tutto questo tempo l’unica cosa che mi mancava fosse il calore del suo corpo e non me n’ero resa conta fino a questo momento.

Riversarmi nel ventre di mia madre è stato il mio primo atto di sparizione. Sentire la continua paura di non essere abbastanza per lei è stato il secondo, e anche il più doloroso.

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