C’è del metodo in questa smemoratezza… – Memento (C.Nolan, 2000)

del prof. Lucio Celot

Nel suo fondamentale testo sul cinema del terzo millennio, F.Marineo riflette sull’espressione “losing the plot” (perdere la trama), modo di dire che, sia pure usato prevalentemente in ambito medico a indicare una condizione patologica della memoria, può essere utilizzato anche per indicare una strategia narrativa che accomuna diverse pellicole che hanno nello scompaginamento della successione cronologica ordinaria la propria cifra tematica. Senza entrare nell’analisi di Marineo, cui rimandiamo il lettore interessato ad approfondire, basti dire che Christopher Nolan (insieme allo sceneggiatore e regista Charlie Kaufman) viene indicato come uno dei registi che più degli altri si è confrontato con questo “scardinamento” dello scorrere ordinario del tempo (emblematica è la penultima pellicola di Nolan, Tenet del 2020). Memento è il suo secondo lungometraggio, e sebbene sia un’opera che può definirsi giovanile, esprime pienamente l’inclinazione dell’autore verso il mind game movie, un cinema cerebrale volto a decostruire le strutture tradizionali dello storytelling e a sfidare lo spettatore.

“Ti ho mai parlato del mio disturbo?” È così che Leonard Shelby si presenta a chiunque incontri, anche a chi ha già incontrato non una ma parecchie volte. Perché Lenny soffre di una rara patologia, un’amnesia anterograda (o sindrome di Korsakov) che gli fa dimenticare tutto quello che dice e fa: non ricorda nulla di eventi o azioni appena compiute (e se una conversazione dura troppo non ricorda nemmeno con chi e perché sta parlando), mentre ha piena memoria della propria vita fino al momento in cui un trauma gli ha causato la rara malattia. Proprio l’evento traumatico, l’aggressione di due balordi che gli hanno ucciso la moglie in casa, diventa l’unica ragione di vita di Lenny, che vuole solo una cosa: vendicarsi di John G., il delinquente assassino che gli ha portato via Catherine. Ma come può compiere la propria vendetta un uomo che non sa più orientarsi nel mondo, che non trattiene nella propria memoria nemmeno il volto di chi ha incontrato anche solo pochi minuti prima? Come può lo stesso Lenny mantenere ferma la propria identità, lui che è deprivato della possibilità di rielaborazione dei ricordi e, dunque, anche della percezione sensoriale?

Problemi che ci portano dritti a Materia e memoria di Henry Bergson, un testo che nel 1896 poneva sul tappeto della riflessione filosofica la questione dei rapporti tra ricordi, memoria, conoscenza e identità. È nota la rappresentazione attraverso la figura del “cono rovesciato” che di questo problema offriva Bergson:

in cui il cono rovesciato rappresenta la coscienza, la base del cono stesso la memoria, il vertice del cono la percezione della realtà. L’attività della coscienza consiste nella continua interazione tra i ricordi-immagine della memoria sollecitati dalle immagini della realtà e la percezione della realtà stessa che richiama dalla memoria ricordi altrimenti destinati a rimanere nell’oblio (e non sfugga il fatto che tutto questo veniva scritto quattro anni prima della pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud).

Se, dunque, la vita della coscienza è data dal continuo costituirsi di un legame tra passato e presente, si capisce bene come la “missione” di Lenny si trovi di fronte ad un ostacolo quasi insormontabile. E allora? La soluzione è trasformarsi in un “post-it” vivente, organizzare strategie concrete per non dimenticare e, soprattutto, non farsi ingannare e usare dagli altri. Lenny è un tatuaggio vivente: tutti i fatti, le notizie, i dati che ritiene siano utili alla sua vendetta se li fa tatuare addosso (al contrario, così li può leggere correttamente allo specchio), oppure usa la Polaroid, con cui fotografa facce e luoghi per non perdere la bussola e annota le istantanee con numeri di telefono, nomi e considerazioni personali. Tutto per non scivolare nell’oblìo.

Ma la sindrome di Korsakov porta l’ammalato a fare un lavoro di ricostruzione assolutamente inaffidabile: le lacune nella memoria vengono colmate con ricordi costruiti dallo stesso ammalato. Con quali garanzie di verità? Ciò che ricorda Lenny è davvero ciò che è accaduto o ciò che egli inconsciamente desidera sia accaduto? Inestricabilmente legato a quello della memoria è, dunque, il tema della verità, che Nolan affronta in modo originale (e che è stato scambiato, appena il film uscì, per esibizionismo virtuosistico) montando le sequenze in modo che lo spettatore abbia le stesse difficoltà di Lenny. In altri termini, le sequenze a colori (l’altro percorso dell’intreccio è girato in bianco e nero e segue la scansione cronologica “normale”) sono montate in modo che la prima scena di ogni sequenza sia l’ultima della sequenza successiva (ma che in realtà viene prima nella concatenazione reale dei fatti), così da farci condividere il disagio di Lenny, continuamente e ansiosamente teso a vagliare e comprovare la “verità” di fatti e circostanze, oltre che abilmente manovrato da chi vuole approfittare della sua particolare patologia.

Siamo, come spettatori, catapultati nella realtà smemorata del protagonista, anche noi alla ricerca di una ricostruzione plausibile dei motivi che portano Lenny a compiere l’azione che apre il film ma che è, in realtà, la conclusione della sua vicenda: come Fight Club (qui la recensione su Pausa Caffè), anche Memento inaugura il nuovo millennio cinematografico mettendo in scena la malattia del soggetto, l’incapacità di ricomporre i frammenti di un’identità dispersa, tema – questo dell’identità perduta – davvero centrale nel cinema dell’ultimo ventennio. Ribaltare la legge fisica dell’irreversibilità della freccia del tempo significa, per Nolan, mettere in discussione anche le categorie del linguaggio cinematografico: lo spettatore vede dopo quello che è accaduto prima, la storia viene raccontata dalla fine all’inizio (e anche dopo l’ultimo fotogramma non ne sappiamo molto di più), il montaggio è invertito, la pallottola esce dal corpo del morto per rientrare nella canna della pistola, l’effetto è rappresentato prima della causa.

Disturbi della percezione, incapacità di appropriarsi consapevolmente del proprio passato e di dare senso al futuro e progettarlo: vent’anni dopo, come Lenny, nella sua affannosa ricerca di sé, l’uomo occidentale continua a chiedersi non solo “Che ci faccio qui? ma soprattutto “Chi sono”? Memento va visto perché è un film profetico, sperimentale, girato da un regista “veggente” che costringe anche lo spettatore a ripensare attivamente il proprio ruolo nella fruizione del racconto filmico.

 

P.S.: la battuta memorabile: – Io non sono un assassino!

– E’ per questo che lo fai così bene!

 

Memento (id.)

Regia: Christopher Nolan

Distribuzione: USA 2000 (b/n, col., 113 min.)

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