Tyler Durden, il profeta di un tempo devastato Fight club (USA, 1999)

del prof. Lucio Celot

Rivedere Fight club quasi un quarto di secolo dopo la sua uscita nelle sale chiarisce anche agli scettici e ai critici che all’epoca stroncarono il film di Fincher per quale motivo, piaccia o no, la storia del dissociato Tyler Durden è assurta a cult assoluto, in grado, come diceva Umberto Eco, di sussistere anche al di là dell’esperienza della fruizione e del tempo. Fight club è diventato, per usare l’espressione che usano gli esperti in comunicazione, un “marcatore d’appartenenza”, un aggregatore simbolico per un’intera generazione anche grazie al fatto che la storia raccontata nel film (tratta, lo ricordiamo, dall’omonimo romanzo d’esordio di Chuck Palahniuk del 1996), si è rivelata profetica nei confronti della Storia con la esse maiuscola: il film esce nello stesso anno in cui a Seattle nasce il movimento No-Global e solo due anni prima dell’evento che ha dato inizio in modo traumatico al nuovo millennio, la distruzione del WTC a New York l’11 settembre del 2001.

La vicenda di Tyler Durden è una sorta di prequel immaginario del reale: il Progetto Mayhem (Progetto Caos nel libro), con la sua carica anticapitalista e antiborghese che culminerà nel finale con la distruzione delle “torri” della finanza e del capitalismo globale, ha invertito il rapporto tra realtà e finzione, laddove le agitazioni sociali e le disuguaglianze che tuttora scuotono il mondo (acuite, peraltro, dalla pandemia) nonché il perdurare di uno stato di guerra asimmetrico tra Nord e Sud del mondo sono a tutti gli effetti imitazione e sequel della lucida satira di Fight club. Non è il caso di soffermarci troppo sulla trama, nota perfino a chi il film non l’ha mai visto: il protagonista, di cui non conosciamo il nome ma che si fa chiamare Jack (Edward Norton), impiegato in una truffaldina agenzia di assicurazioni, conosce Tyler Durden (uno scolpito e atletico Brad Pitt al meglio della forma), un guerrigliero-guastatore urbano piuttosto sui generis (quando lavora come cameriere in un ristorante di lusso ha l’abitudine di orinare nelle zuppe e nelle minestre che verranno servite ai raffinati commensali e quando fa il proiezionista nei cinema della città alcune sere alla settimana si diverte a inserire nelle bobine di film per bambini e famiglie fotogrammi di film pornografici…) e da quel momento la sua vita cambia. I due fondano un fight club nello scantinato di un locale dove si organizzano combattimenti a mani nude tra uomini che hanno bisogno di sentirsi vivi e di uscire dal torpore esistenziale attraverso il dolore del corpo, il sangue, l’adrenalina che torna a scorrere; ben presto i membri dei fight club diventano un vero e proprio esercito clandestino che in tutte le grandi città d’America si rendono protagonisti di una serie di attentati ai simboli e ai luoghi del capitale, fino a minare una serie di edifici dove hanno sede gli istituti della finanza globale.

Ma è anche un altro elemento del finale (che qui non si svela nel dettaglio) a fare di Fight club un racconto profetico, e cioè la presa d’atto della dissoluzione dell’identità e integrità del soggetto, dell’uomo occidentale, che si rivolta e si ribella, con i pugni e le ferite che esibisce fieramente, ad un sistema che produce alienazione non solo attraverso meccanismi economici ma anche politici: cosa sono gli scontri di Seattle, il fenomeno dei Black Bloc, i terribili fatti del G8 di Genova del 2001, l’antipolitica qualunquista di casa nostra se non una certificazione di quanto prefigurato dal film e, al tempo stesso, avvisaglie e anticipazioni del “tempo devastato e vile” che ci troviamo a vivere oggi?

Film-cervello (qui una lettura psicanalitica del film), variazione postmoderna del noir, radicalizzazione del punto di vista soggettivo, coreografia della violenza: così definisce Fight club lo storico del cinema Renato Venturelli, evidenziandone lo stile sincopato da videoclip. In ogni caso, a prescindere da come lo si voglia definire e se ci è piaciuto o no, Fight club è una di quelle opere che, pur con il suo manicheismo esasperato (sembra non esserci alternativa tra l’alienazione da consumismo e l’anarchia distruttiva), ha spostato in avanti l’immaginario e ci ha avvisato di cosa ci attendeva all’alba del nuovo millennio.

 

Ficht club (id.)

Regia: David Fincher

Distribuzione: USA 1999 (col., 139 min.)

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