Due storie di (stra)ordinaria violenza – Room (L.Abrahamson, 2015); Dogtooth (Y.Lanthimos, 2009)

Max D’Alessandro (ex 3A)

                             

Room mette in scena la storia di una giovane donna, chiamata Ma, segregata da tempo in un cottage da un uomo, Old Nick, che l’ha rapita e stuprata. A seguito dello stupro, Ma diventa madre di un bambino che nasce nella stessa angusta stanza dove ella, sola e senza alcuna assistenza medica, è reclusa. Così, il bambino, Jack, cresce senza esplorare né conoscere il mondo esterno e per ben sette anni madre e figlio vivono prigionieri senza alcuna possibilità di scappare. Quando Jack diventa grande abbastanza, Ma e Jack proveranno di tutto per scappare e per denunciare finalmente Nick alla polizia.

Il regista riesce a evidenziare la “spensieratezza” del bambino che trova nella stanza-carcere tutto il suo piccolo mondo, ed è sufficientemente soddisfatto; per essere felice gli basta avere vicino la madre. Tra i due c’è infatti un legame che non si è spezzato, giocano e trascorrono il tempo; la madre, anche per crearsi una scappatoia mentale, cerca di rendere quanto più “normale” possibile la condizione sua e del figlio, facendo sì da non fargli mancare nulla: prepara al piccolo la torta ad ogni compleanno, gli fa avere dei regali, gli racconta storie sul mondo esterno (che Jack non ha mai visto, ma che gli procura un sempre più forte desiderio di evasione). Tutto ciò è possibile in realtà perché la madre, in cambio di rapporti sessuali con il Vecchio Nick, ottiene i “premi speciali settimanali”, tra cui anche i regali che Ma consegna a Jack.

Va sottolineato che l’uomo responsabile del rapimento, nonché il padre a tutti gli effetti di Jack, si interessa poco al figlio, perché il suo obiettivo è la donna, che tiene come un vero e proprio oggetto sessuale da usare a proprio piacimento, sfruttando il figlio come arma di ricatto, tanto che alla fine, vedendosi ormai con le spalle al muro, contando sulla incapacità del bambino di raccontare con credibilità la vicenda una volta nel mondo esterno, lo lascerà scappare.

È evidente la contrapposizione tra mondo soggettivo e oggettivo, tra ciò che sembra e ciò che realmente è. È la stessa questione filosofica rappresentata in Dogtooth (Y.Lanthimos, 2009), nel quale una famiglia è istruita secondo regole dettate dai genitori: il problema è che quelle regole sono fatte per impedire ai figli di sviluppare un proprio pensiero critico e farne dei veri e propri burattini (il film nasconde un significato soprattutto di critica politica ai regimi totalitari). Si pensi allo spiazzante inizio del film: nella vita quotidiana, in famiglia si usano parole diverse per indicare le cose, ad esempio il lampadario è chiamato “sedia”, la forchetta è chiamata “letto” e così via (i genitori creano un linguaggio diverso a quello comune per far diventare sudditi assoluti i loro figli). In questo modo il regista crea grande difficoltà per lo spettatore che, inizialmente, non comprende appieno che cosa stia succedendo. I figli, in Dogtooth, sono estremamente obbedienti, e non conoscono, come in The Room, il mondo esterno alla loro villa in campagna, e credono che il mondo che conoscono e percepiscono con i sensi (visione/realtà soggettiva) sia la realtà effettiva, ignoranti di tutto il resto del mondo che li circonda (realtà oggettiva), sono felici (si sentono soddisfatti perché è quello il loro mondo, sebbene piccolo; non gli manca nulla, non avvertono desideri non conoscendo la vita all’esterno; in Room Jack vive la medesima condizione).

Room acquista ancora più significato quando si capisce che è ispirato a diverse storie vere: una delle più famose è il caso Fritzl, un sequestro in una cittadina dell’Austria che venne alla luce agli inizi del 2009. Elizabeth Fritzl rimase chiusa in un bunker per 24 anni, dal 1984 al 2008; responsabile fu addirittura il padre, un ingegnere che costruì nella sua stessa casa il bunker ove rinchiuse la figlia per poterla abusare sessualmente (dall’incesto nacquero addirittura 7 figli, vissuti anche loro nel bunker) senza mai farla uscire fino a che non venne scoperto dalle autorità. Elizabeth non si riprese mai completamente dal trauma, nemmeno dopo continue sedute psicoterapeutiche. Uno dei primi casi conosciuti di questo tipo è quello di Blanche Monnier, donna francese che venne liberata nel 1901, dopo circa 25 anni di reclusione all’interno di una stanza putrida, in gravissime condizioni di anoressia: era stata segregata lì dai suoi familiari perché considerata “colpevole” di voler sposare un uomo che la famiglia non approvava.

 

Room (id.)

Regia: Lenny Abrahamson

Distribuzione: GB, USA, Canada 2015 (col., 118 min.)

 

Dogtooth (id)

Regia: Yorgos Lanthimos

Distribuzione: Grecia 2009 (col., 93 min.)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.