I tempi cambiano ma la Storia resta la stessa – Killers of the Flower Moon (M.Scorsese, 2023)

del prof. Lucio Celot 

È una brutta storia (vera) di petrolio, omicidi e avidità quella con cui Martin Scorsese torna al grande schermo quattro anni dopo The Irishman, adattando l’omonimo romanzo di David Grann. Brutta storia che serve a Scorsese per smascherare, una volta di più, la narrazione epica delle origini della democrazia americana e per rovesciare il mito della frontiera in una ben più prosaica vicenda di bieco opportunismo, razzismo, sangue e corruzione.

Quando nel territorio dei nativi Osage, in Okhlaoma, viene scoperto il petrolio, scatta da parte dei bianchi la corsa alle concessioni per la costruzione dei pozzi e l’estrazione (i nativi vengono considerati dai tribunali americani “incompetenti”): le donne e gli uomini Osage divengono, improvvisamente, il popolo più ricco d’America, viaggiano su auto di lusso, le loro case sono eleganti e sfarzose, vestono in modo raffinato pur non dimenticando le proprie origini e tradizioni. Ma, evidentemente, alla comunità dei bianchi, che si è formata e ingrandita fianco a fianco a quella dei nativi, la ricchezza che pure ha accumulato non basta: per potere diventare padroni, non solo concessionari, dei pozzi è sufficiente sposare una donna Osage in comunione di beni e il gioco è fatto. Per cui, quando iniziano a verificarsi alcuni efferati omicidi di giovani e facoltose donne Osage sposate con uomini bianchi, l’FBI inizia a indagare e gli omicidi aumentano. L’armonia dei rapporti tra le due comunità si rivelerà solo un’ipocrita apparenza, chi si atteggia ed è riconosciuto come benefattore e tutore della comunità nasconde in realtà mire e segreti inconfessabili, persino il più innamorato dei mariti deve cedere alla logica omicida del profitto e dello sfruttamento.

Leonardo Di Caprio e Robert De Niro, ormai da anni i due alter-ego di Scorsese, sono i poli attorno a cui, insieme a Lily Gladstone/Molly, ruota la vicenda: il primo impersona Ernest Burkhart, reduce dalla prima guerra mondiale, il classico “uomo senza qualità”, amorfo e inetto, che viene plagiato da William Hale, il personaggio di De Niro, il “Re”, subdolo e diabolico vicesceriffo nonché zio dello stesso Ernest, autentica eminenza grigia di Fairfax, la cittadina dove si svolgono i fatti, che convince il nipote a corteggiare e a sposare Mollie Kyle, ricca proprietaria Osage di numerosi pozzi destinata al ruolo di vittima sacrificale. La vicenda degli omicidi avrà una conclusione processuale che farà giustizia solo parzialmente dell’intricata catena di violenze e morti.

Rispetto al libro-inchiesta di Grann, che ripercorre a ritroso e, dunque, ricostruisce a posteriori la storia, Scorsese preferisce offrire allo spettatore un resoconto cronologico che affonda lo sguardo nell’America contemporanea in cui la violenza e il cinismo divengono strumenti di prevaricazione e arricchimento. La “nascita di una nazione” avviene all’insegna del furto, dell’inganno, dello sterminio: siamo negli anni ’20 del ventesimo secolo, sembra che “the times they are a-changing” ma, evidentemente, così non è, visto che l’America continua a crescere e a ingrandirsi attraverso il metallo dei pozzi (nel secolo precedente era quello delle ferrovie) e l’avidità di capitalisti senza scrupoli (che hanno sostituito i proprietari terrieri dell’ottocento). Chi si aspetta lo Scorsese “consueto” (per intenderci, quello di The Irishman, Goodfellas, Casinò, Mean Street) si troverà davanti ad un fluviale (quasi tre ore) true crime che è, al contempo, saga familiare, western crepuscolare, melodramma che racconta, in fondo, un’utopia mancata (qui la recensione su rivistastudio.it), quella di come sarebbe potuta essere e non è stata l’America in cui nativi e bianchi convivono e si mescolano.

Il sottotitolo del libro di Grann (edito in Italia come Gli assassini della terra rossa) è Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’FBI. Una storia di frontiera, sintesi editoriale perfetta anche per la trasposizione cinematografica che sapientemente costruisce il delicato contesto sociale nella prima mezzora, avvia il registro crime con tanto di sospetta cospirazione, morti e funerali (ce ne sono parecchi in tutto il film) e chiude il tutto con un segmento legal (in verità, troppo breve nell’economia complessiva della narrazione); e il riferimento alla “frontiera”, autentico mito fondativo per gli americani, ci riporta al genere che più degli altri ha fatto la storia del cinema, il western: ma mentre John Ford fa dire alla fine de L’uomo che uccise Liberty Valance “When truth becomes legend, print the legend”, Scorsese affida a Di Caprio/Ernest, un povero scemo (anche un po’ stronzo, in verità…) che si fa manipolare il compito di desacralizzare e svuotare quel mito. La Civiltà nasconde un cuore di tenebra, non è poi così diversa da quella Barbarie che pretende di emendare e correggere: e De Niro/Hale ne è l’epitome perfetta, il Male che cambia solo faccia ma resta il fondamento della Storia (ricordate la foto con un sorridente Nicholson che chiude in modo così enigmatico Shining? E non era, anche l’Overlook Hotel, “costruito” sopra un cimitero di nativi?). E tuttavia, la danza finale degli Osage, ripresa da Scorsese dal “punto di vista di Dio”, sta lì a ricordarci che un altro mondo è sempre possibile.

 

 

P.S.: il film è dedicato a Robbie Robertson, leader storico del gruppo “The Band”, il cui concerto di scioglimento fu filmato dallo stesso Scorsese nel film-concerto considerato dalla critica il migliore di sempre, The Last Waltz (1978). Robertson, scomparso nell’agosto scorso, ha collaborato alle colonne sonore dei film di Scorsese, compresa quella di Killers of the Flower Moon, ed era un canadese di origini native, un Cayuga cresciuto in una riserva vicino a Toronto. Diavolo di un Martin, non fai proprio niente a caso…

 

Killers of the Flower Moon (id.)

Regia: Martin Scorsese

Distribuzione: USA 2023 (b/n e col., 206 min.)

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