A Suburra il canto del cigno della vecchia mala – Adagio (S.Sollima, 2023)

del prof. Lucio Celot 

Sporco, notturno e cattivo, così dev’essere un noir metropolitano degno di questo nome: e Adagio, l’ultima fatica di Stefano Sollima, suggello conclusivo alla trilogia “romana” (dopo Romanzo criminale – La serie e Suburra, entrambi dai romanzi di De Cataldo), lo è a tutti gli effetti. A fare da cornice alla storia di Manuel e del conflitto generazionale tra la vecchia guardia criminale e le nuove e più spietate forme di illegalità, c’è sempre Roma, la Città Eterna(mente) in stato di decomposizione e putrefazione, un morto che cammina in un’estate torrida, afosa, in preda agli incendi che lentamente avanzano dalla periferia e a continui blackout che fanno piombare improvvisamente case e strade nel buio totale. Dagli anni ’70 e dall’epopea della banda della Magliana ad oggi Roma non è cambiata, è ancora la stessa sentina di corruzione, malavita e poteri occulti che si intrecciano e in cui il passato non passa mai del tutto e torna sempre a riscuotere i debiti non pagati. Lo sanno bene Daytona (Toni Servillo), Pol Niuman (Valerio Mastandrea) e Cammello (un irriconoscibile e sgradevole a vedersi Pierfrancesco Favino, completamente glabro), tre ex malavitosi della Magliana ormai ridotti all’ombra di se stessi, il primo con apparenti problemi di demenza senile, il secondo completamente cieco e il terzo malato di cancro terminale, chiamati loro malgrado a ritornare “dall’altra parte” (secondo un cliché tipico del genere poliziesco) per difendere il giovane e sprovveduto Manuel, figliastro di Daytona, che viene incastrato da un carabiniere corrotto (Adriano Giannini) e costretto, a sua volta, a incastrare con foto compromettenti nientemeno che un ministro della Repubblica con il vizio di partecipare a festini quantomeno equivoci.

Qui poco importa la trama, peraltro sorretta da una sceneggiatura solida e senza sbavature; in Adagio valgono il ritmo (non ci si faccia ingannare dal titolo), la trama serrata e densa, i dialoghi espressivi e credibili, il movimento lento e strascinato dei corpi anziani e malati che non impedisce però improvvisi scatti di violenza e ritrovata vitalità; valgono gli esterni diurni, con gli incendi perennemente sullo sfondo della skyline romana (una nuova decadenza neroniana?) che fanno piovere cenere sulle strade; vale lo scenario notturno con l’alternarsi schizofrenico dell’illuminazione artificiale e il buio più totale (d’altra parte, potrebbe mai esistere un noir senza la Città?). Niente monumenti, niente Roma da cartolina, nessuno spot fascinoso e patinato per turisti: palazzoni di periferia, svincoli autostradali, squallidi interni illuminati poco e male, stazioni della metro, ingorghi e clacson, afa, calore, sudore. In una parola, l’apocalisse dentro cui si consumerà, tra i binari della Tiburtina, la resa dei conti finale.

Gli attori sono in stato di grazia, a cominciare da Giannini, l’emblema del male, lui che dal male dovrebbe tutelare i cittadini, poliziotto corrotto, corruttore e demoniaco che non esita a ricattare e uccidere per soldi (è un padre di famiglia con due figli da mantenere); Mastandrea, povero, malridotto e patetico vecchio criminale che tenta un’ultima volta di entrare nel “giro” ma ne diventa immediatamente vittima; Servillo, il cui personaggio richiama alla lontana il Kaiser Soze de I soliti sospetti di Singer, bravissimo nel trasformarsi nell’arco di una camminata da anziano demente a spietato e lucidissimo gangster; e, infine, Favino, la cui performance è, ancora una volta, impressionante e portata al limite: magrissimo, calvo, incurvato, biascica un romanesco a tratti incomprensibile, è l’incarnazione del codice d’onore e della moralità della vecchia “scuola” della malavita romana, contrapposta alla totale mancanza di scrupoli delle nuove generazioni di criminali (che nel film sono le forze dell’ordine), tutte telefonini e computer super tecnologici.

Adagio è una storia di padri che cercano una seconda occasione per salvare i figli (e ci riescono), in cui i confini tra salvezza e dannazione si fanno labili; elegia crepuscolare di un’epopea criminale giunta ormai all’epilogo ma in cui ognuno dei comprimari vuole recitare il proprio assolo finale da protagonista. Ne avranno la possibilità, moriranno come hanno vissuto; sono il passato, mentre il presente e il futuro sono affidati a Manuel che, scampato al pericolo, si affiderà, nonostante tutto, alla Legge, cui spetta il compito disperato di arginare l’incipiente fine del mondo. Che, ça va sans dire, non può che iniziare da Roma caput mundi.

 

Adagio (id.)

Regia: Stefano Sollima

Distribuzione: Italia 2023 (col., 127’)

 

 

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