Quel vecchio venditore di sogni

Di Michaela Iannarone

Questa è storia vera. Una storia di quelle costruite e ingioiellate dalla fantasia del narratore, violente nello sfarzo e ingentilite dalla realtà. Perché il narratore altro non è che servo della penna, schiavo del vizio estetico, ed ossa e carne attraverso cui agisce la storia.

 

Se alla sera, ti capiterà di passeggiare per le strade di una città morente, chiuso nel tuo cappotto e nei tuoi pensieri, vedrai un uomo come ce ne sono tanti in giro.

Uno dai capelli bianchi e neri, dall’odore acre di alcool e gin, diluito con quel poco di amarezza, che tanto basta a sciogliere il dolore.

Quest’uomo, che puoi chiamare come vuoi, è un mendicante di strada, un venditore di sogni, con le mani di legno e un sacco pieno di burattini.

Anche lui è un narratore, di commedie e cerimonie. E` un narratore di quelli che ci nascono, uno di quelli con l’occhio a punta di coltello e l’animo aggraziato.

Giacché sin da bambino gli dicevano “Giovanotto, il tuo dono è narrare!”, si convinse e iniziò a scrivere e a raccontare.

Più la mano era stanca e appesantita, più facilmente l’ingegno lo vinceva, e tanto dolce gli parve a un tratto la sconfitta, che senza alcun lamento, vi si arrendeva.

E giorno e notte stendeva nuove righe, creava personaggi, andava di qua andando di là, regalava i suoi scritti, li lanciava giù dal campanile, li dedicava ai parenti e lasciava all’editore mille lire.

Quando gli dissero “Sei bravo. Se vuoi, puoi andar lontano” era poco più d’un uomo.

Tuttavia, per quanto si cercasse di farlo ragionare, il grande danno era ormai fatto perché lui lo voleva, Dio se lo voleva. Scrivere per vivere. Vivere per scrivere.

Ecco allora che il poverino, senza esperienza alcuna dei valzer turbolenti che si ballano nel mondo, era come un ballerino senza scarpe, come un pappagallino spelacchiato a cui tagliano le ali, ma incitano a volare.

Arrivò a credere d’esser egli stesso la zavorra del suo successo. Poco talento? Probabilmente scarsa astuzia e intelligenza.

Perché il fatto è questo e anche molto semplice: nessuno aveva mai trovato quelle parole di bestiale sfrontatezza che la sincerità trasforma in vero, nessuno aveva mai osato rivelargli che il problema non era affatto lui, ma la società in cancrena, che ti dice “Tu puoi essere chi vuoi, hai tutto ciò che serve” e poi ti lascia lì nel fango, ingozzato di dolcezze, senza neanche un filo d’acqua per soddisfare la tua sete.

Così, mentre le camicie si logoravano e le macchie d’inchiostro disegnavano i Paesi in cui mai sarebbe andato, si ripiegava nella sua febbricitante commiserazione.

Era oramai evidente che la cosa non andava, e quando la pancia chiama non esiston saggi o sognatori.

Narrare non poteva più essere il suo solo impiego. Allora ogni volta s’inventava un nuovo gioco per irretir la sorte e farsi assegnare un’altra strada, ma cambiare non è facile. Perché il suo unico dono era narrare, gli dicevano.

Fu così, che tra il calore del metallo e il grano macinato, si ritrovò un giorno a fare il fabbricante di tacchi, suole e lacci. Si divertiva e aveva la mano buona e forte, come un gigante dalle ossa rotte.

Fabbricare gli piaceva e così arrivava almeno fino a cena, ma si sa, le bugie son nuvole di fumo ed anche l’illusione si dissolve.

Partenope d’altronde non lo aiutava affatto, lo istigava e alimentava quell’insipida speranza di tornare a raccontare.

Quando un giorno, si scontrò con un gruppo di teatranti, andò dal suo destino e se lo prese con le mani, affondò gli artigli nella carne e e mangiò a morsi la sua scelta. Questi teatranti, ben lontani dall’eccentrica stravaganza che caratterizza i comuni attori, gli insegnarono a non prender mai la scena, a muovere le mani come fossero di stoffa e a guardar da dietro un legno le risa dei passanti. Fare il burattinaio era il mestiere che più gli si addiceva, ma neanche questa nuova convinzione lo portò tanto lontano.

Non tutti sono destinati a grandi cose. Bisogna farci i conti.

E così continuò la sua vita, tra aspirazioni deluse e indebolite, tra piazze vuote e viali meschini, tra ricordi del futuro e cristalli del passato.

Ora, quando la notte spegne le luci e i rumori, altro non gli resta che quelle buffe figurine.

Osserva, osserva caricature umane e gli pare, quando la lucidità lascia il posto alla spossatezza e all’incomprensione, che quelle testoline lo guardino beffarde. –Fallire è il tuo dono. Non, raccontare o fabbricare, ma lasciar dietro di te una scia di brocche vuote-

Una volta, vinto dal freddo e dalla stanchezza, ha ceduto sotto il colpo degli insulti e, per dimostrar di avere vinto anche solo una volta, le ha spaccate ad una ad una quelle facce scolorite.

Riconoscendo le sue rughe nel riflesso delle piaghe nel legno, ha anche pianto, come da molto non faceva.

Con il corpo fatto a pezzi, vaga ancora con quel che resta.

 

Come quell’uomo, per le strade, sotto i ponti e in ferrovia, ce ne sono tanti che cercano riparo.

E se alla sera, ti troverai a passargli accanto, presta attenzione.

Non fingere la pietà intellettuale che avvolge il cuore degli ipocriti, ma ostenta quella potenza che già provi nel guardarlo. Perché lo sai, tu non sei come lui e non puoi diventarlo.

Dunque, fa’ che ad osservarlo sia curiosità caina, e lei soltanto.

La curiosità caina che beve al seno della paura e del rifiuto, che dorme nella culla del peccato originale, del non essere all’altezza.

Ti basterebbe poco più di un soffio, per trasformarlo come te. Ma sei forse tu, il custode di tuo fratello? No.

Però lo sai e hai paura. Perché ti basta poco più di un soffio, per trasformarti come lui.

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