QUELLA VOLTA CHE MI SVEGLIAI SENZA VOLTO

di Luisa Granata (2F)

Fu alquanto bizzarro, grottesco.
Soprattutto, ancora inspiegabile.
Impossibile da razionalizzare e, dunque, per me inaccettabile.
Eppure, posso giurare e spergiurare che niente di tutto ciò è una falsità.
Me la ricordo bene quella mattina, –del resto come potrei dimenticarla– faceva freddo.
Le tende non lasciavano trapelare la flebile luce delle sei di mattina e la pressione bassa non
aiutava di certo la vista. Come lo schermo di quei vecchi televisori a tubo catodico e polvere.
Alzandomi per andare verso il bagno, avevo intravisto, assonnata, la mia figura riflessa nello
specchio dell’anta dell’armadio, lasciata aperta dalla dimenticanza più che da qualche
scheletro lì rinchiuso e poi scappato via alla giusta occasione.
Qui, l’incredibile.
Mi parve di vedere, tutto offuscato, una faccia senza volto.
Stranita, mi avvicinai, credendo un abbaglio.
Ma lo specchio non era bugiardo. Cercai con le dita il contorno delle labbra, le ciglia degli
occhi, quantomeno il rialzo del naso.
Passai e ripassai le mani.
Non c’era niente.
Le carezze divennero tastate, le mani pesanti, come per cercare di deformare la faccia, che mi
dava l’impressione d’esser argilla bagnata.
Come per sciogliere lo strato di cera che ricopriva il volto.
Non c’era nessuno strato, solo pelle, che iniziava ad arrossarsi per lo sfregamento.
Sconfortata, stupita, terrorizzata, incuriosita.
Non so bene perché, ma spostai lo sguardo sulla parte del letto che si rifletteva.
Come se avessi avuto un’idea, mi girai e andai vicino al cuscino.
Cercavo, cercavo, sotto, sopra, tra le lenzuola, sul comodino, sotto al comodino, ovunque,
cercavo qualcosa.
Probabilmente, più che le effettive parti del viso, una spiegazione.
Mi sarebbe andata bene qualsiasi cosa.
Qualsiasi, tranne i ciuffi di polvere che erano le uniche cose che avevo trovato, oltre al calzino
sinistro.
Per un attimo mi chiesi dove fosse quell’altro, ma immediatamente balzò di nuovo il problema
principale.
Mi chiesi anche come avessi fatto a tralasciare, anche se solo per un momento, l’imminente
situazione per risolvere l’arcano del calzino scomparso, come se mi stessi rimproverando,
data, più che la gravità della situazione, la rarità.
Andai in bagno, accendendo la luce prima di entrare, e mi fiondai al lavandino.
Fissavo questa faccia senza volto imperterrita.
Realizzai anche che vedevo senza avere gli occhi.
Respiravo senza un naso, e non mi sembrava possibile che i pori riuscissero a provvedere al
sostentamento necessario di ossigeno per farmi vivere.
Ripensandoci, sarebbe stato più divertente se, non avendo gli occhi, non avessi visto
–logicamente– niente, appunto.
Mi bloccai. Pensai di provare a parlare, a gridare, emettere un qualsiasi suono.
Riuscivo a sentire i miei pensieri che, come due partiti opposti, non riuscivano a mettersi
d’accordo sul da farsi.
Avevo paura di non sentire una risposta.
Avevo paura di non sentire niente.

Se adesso cercassi di ricordare quale sarebbe stata l’ultima parola che avrei detto se non fossi
riuscita più a parlare, probabilmente non riuscirei o mentirei involontariamente.
Sul momento, non pensai a questo.
Mi spaventava troppo il silenzio, l’ineffabilità delle mie grida, e, di conseguenza, ingoiai la
bramosia.
Continuavo, però, ad osservarmi.
Il fatto che riuscissi a vedermi senza letteralmente avere gli occhi mi assillava, ossessionava.
Che stessi delirando?
Mi misi a letto, nuovamente.
Decisi di riaddormentarmi per poi risvegliarmi.
Imperterrita, l’immagine riflessa fissa nella mia mente appena chiudevo gli occhi.
Ma li stavo davvero chiudendo?
Non vedevo il soffitto, però. Solo la mia immagine.
Alzai le braccia, e le due immagini si alternavano.
Specchio, soffitto. Specchio, soffitto.
Era inutile stare a letto. Di questo passo non avrei mai chiuso occhio, letteralmente o meno.
Non sapevo che fare.
Cercando una spiegazione, in qualche modo era come se mi stessi rassegnando a quella che
per me era una pseudo realtà, ma che di fittizio, come la mia faccia, non aveva niente.
Cercai di incastrare dei pensieri razionali in un contesto totalmente estraneo a questa parola.
La cornice dello specchio era quella di un dipinto surrealista, uno di quelli di René Magritte,
ma non vedevo solo una tela morbida di pelle, ma la mia faccia.
Sapevo che fosse la mia.
Anche senza i miei occhi, il mio naso.
Anche senza quel neo sulla guancia sinistra, che per quanto ininfluente per me era essenziale.
Sapevo che fossi io.
Mi riconoscevo guardando cosa?
Gli altri mi avrebbero riconosciuto?
O sarebbero scappati, quelli che non sarebbero rimasti pietrificati dall’assente sguardo vacuo
di una Medusa senza nemmeno i serpenti?
L’auto percezione di me stessa mi rincuorava, spaventava, affascinava allo stesso tempo.
Mi riconoscevo? O ero cosciente della mia persona, della mia individualità caratteristica, della
mia essenza?
Perché sapevo di essere reale?
Perché sapevo di essere me?
Perché non l’avevo messo in dubbio?
C’era qualcosa in quell’assenza del mio volto, qualcosa che mi riconduceva a me.
Era quasi stupida la domanda, chiedersi se si è davvero se stessi.
Non per la paura di essere qualcun altro, ma per la stessa di non essere più qualcuno.
Di non essere più se stessi, appunto.
Ma io ne avevo la certezza più pura.
Quello di cui non avevo certezza era ciò che vedevo.
Sapevo di essere io, e che io fossi reale, ma lo era anche l’immagine?
Come si vede senza occhi?
Non era un sogno, ma non posso esserne certa, era così vero, realistico, vivido.
Qual è il confine con la realtà? Cos’è che la determina, che la definisce?
Perché si ha la certezza indiscutibile della sua veridicità?
Se vedo qualcosa, qualcosa di reale, come posso essere sicura che esista o che non l’abbia solo
immaginato?
Se penso qualcosa, quel qualcosa dove esiste?

Annichilire la realtà per constatarne l’esistenza.
Senza un volto, senza un’evidenza, cosa di me sa di esserlo?
Io riconosco ciò che mi circonda perché corrisponde ad un’immagine precisa.
Perché non rispondo di questa teoria?
È la mia coscienza ad identificarmi a priori.
Ma questa sicumera da cosa è scaturita?
Se mi stessi ingannando?
Se fossi stata capace di abbindolarmi?
Artefice del meccanismo, la mia coscienza ci crederebbe?
Starebbe al gioco o lo troverebbe di cattivo gusto, riportandomi alla realtà?
Ma quale?
Quella che esiste? O quella che lei percepisce?
Perché parlo di “lei” se sono io?
Perché sono io, no?
O è lei?
Io, delle due, chi sono?
Possiamo essere in due?
Siamo entrambe?
Qual è il confine tra me e lei?
Cos’è che la determina, che la definisce?
È un qualcosa estraneo a cosa per essere altro da me?
Sapevo di occhi che non vedevano, non di certo il contrario.
Eppure, io vedevo senza occhi.
Ed io sono reale.

2 pensieri riguardo “QUELLA VOLTA CHE MI SVEGLIAI SENZA VOLTO

  • 15 Gennaio 2022 in 23 h 45 min
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    Che ansia!!! Brava!

    Rispondi
  • 27 Gennaio 2022 in 12 h 55 min
    Permalink

    Avvincente,ben scritto,con un apprezzabile taglio filosofico .
    Brava,Luisa.
    Mi è piaciuto molto.

    Rispondi

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