Fragmenta continua: le epistole di Seneca a Lucilio

di Alessandro Scarano IIIF

Dalle lettere che Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) indirizzò all’amico campano Lucilio leggeremo una parte della I 7. In essa Seneca svolge il tema, comune alle maggiori scuole filosofiche dell’ellenismo, secondo il quale il saggio, il sapiente, deve guardarsi dalla folla, dai pubblici clamori, dai gusti e dai costumi della moltitudine. Naturalmente Seneca ne tratta con uno stile tipicamente stoico: non l’indifferenza dello scettico, o il disdegno aristocratico ed egoista dell’epicureo, quanto invece un vivo senso morale circa i propri doveri, i propri compiti, il proprio destino. Lo stoico non evita la folla per vivere più felice, ma per salvaguardare la propria virtù; e se disdegna il conformismo ottuso e sciocco dei più, il loro darsi da fare in mille negozi e futili imprese, non è perché miri all’ozio e a starsene in pace. Come stoico, Seneca non risparmia gli sforzi per le cose che veramente contano e che costituiscono un bene reale, non solo per lui, ma anche per l’umanità futura. Non bisogna dimenticare lo sfondo storico-sociale entro il quale si colloca il messaggio di Seneca: la Roma corrotta, tumultuosa, degenerata del tempo di Nerone, la Roma degli spettacoli crudeli dei gladiatori del circo o delle commedie spesso volgari e licenziose; la Roma delle ingenti quanto fragili fortune degli affari e della politica. A questi modi di vita alienanti e dissolvitori di ogni seria interiorità e libertà di pensiero Seneca oppone la sua ferma fiducia nella filosofia, nella ricerca personale che non si lascia intimorire dalle mode e dalle fazioni delle cosiddetta opinione pubblica.

Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. […]Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit aut nescientibus adlinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidfre; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt.[…]Casu in meridianum spectaculum incidi, lusus expectans et sales et aliquid laxamenti quo hominum oculi ab humano cruore adquiescant.[…]Unum exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit: convictor delicatus paulatim enervat et mollit, vicinus dives cupiditatem irritat, malignus comes quamvis candido et simplici rubiginem suam affricuit.[…]Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt.

Mi chiedi cosa tu debba soprattutto evitare? La folla. […] Funesta è la frequentazione di molte persone: ognuna o ci suggerisce o ci imprime qualche difetto, o ce lo comunica a nostra insaputa. Comunque sia, tanto maggiore è la folla a cui ci confondiamo, di tanto cresce il pericolo.Ma niente è più dannoso ai buoni costumi quanto lo starsene ad assistere a qualche spettacolo: allora attraverso il piacere più facilmente i vizi si insinuano in noi. […] Per caso sono capitato a uno spettacolo di mezzogiorno, aspettandomi scherzi, facezie e un po’ di svago, nel momento in cui gli occhi degli uomini si riposano dalla vista del sangue umano.[…] Anche un solo esempio di fasto di avarizia può fare gran male: un commensale raffinato insensibilmente ci svigorisce e ci abitua alle mollezze, la vicinanza di una ricco accende l’avidità, talvolta un compagno maligno attacca la sua ruggine al vicino per quanto candido e semplice. […] Ritirati in te stesso quanto puoi, volgiti a quelli che possono farti migliore, accogli quelli che puoi rendere migliori, a vicenda queste cose avvengono e gli uomini mentre insegnano imparano.

 

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