I Classici da rivedere #5: Rashomon, ovvero quando l’Europa scoprì un altro cinema – Rashomon (A.Kurosawa, 1950)

del prof. Lucio Celot

Quando, nel 1951, Rashomon vinse il Leone d’Oro a Venezia, il cinema orientale, e quello giapponese in particolare, erano considerati in Europa rappresentativi di una cultura esotica e lontana dal gusto occidentale; l’anno dopo, l’Academy gli assegna l’Oscar come migliore film straniero. Cos’era successo nell’arco di due anni? Cosa aveva convinto la critica occidentale a valutare e apprezzare un prodotto che veniva da una cinematografia praticamente sconosciuta ai più? E soprattutto: quali strumenti interpretativi vennero utilizzati, considerato che il contesto culturale e artistico giapponese era assolutamente ignoto? Se si vanno a leggere le recensioni dell’epoca, si vede che, in sostanza, furono due gli elementi del film che sollecitarono la curiosità degli spettatori e l’entusiasmo degli specialisti: l’abilità formale e tecnica del regista e la storia che, al di là dei fatti raccontati, assume un valore di carattere universale.

Tratto da due racconti di uno scrittore del primo novecento, Ryonosuke Akutagawa, In un bosco e Rashomon, il film di Kurosawa fu immediatamente definito “pirandelliano” per la particolare costruzione dell’intreccio: un samurai viene trovato morto in una foresta da un boscaiolo (Takashi Shimura, presenza costante nei film di Kurosawa) e da un monaco. Il giudice (che non vediamo mai, ma di cui assumiamo il punto di vista durante le udienze: e, dunque, il giudice siamo noi che guardiamo), ascolta ben tre testimonianze, che sono altrettante confessioni: quella del bandito Tajomaru (un “selvaggio” Toshiro Mifune, attore feticcio del regista), quella della moglie della vittima, che afferma di essere stata violentata dal bandito, e quella del fantasma del morto, evocato da una maga. Le testimonianze offrono tre versioni completamente diverse del fatto di sangue, lasciando così al giudice e allo spettatore l’impossibile compito di districare il groviglio della vicenda e stabilire dove stia la verità. La storia viene rappresentata all’interno di una cornice narrativa che vede il monaco e il boscaiolo ripararsi dalla pioggia incessante sotto la Porta di Rashō, l’ingresso meridionale dell’antica città di Kyoto, di cui sono rimaste solo alcune rovine e che è diventata un deposito di cadaveri insepolti. Lo scetticismo e il nichilismo di Akutagawa vengono stemperati da Kurosawa con un finale che, dopo una quarta confessione del taglialegna, ridà speranza nella capacità dell’uomo di ascoltare la voce della solidarietà e della filantropia.

Ma anche la costruzione formale del film fu particolarmente apprezzata: i flashback che visualizzano le confessioni si alternano in modo sapiente e rapido (il film dura solo 88 minuti) con i momenti di riflessione del monaco e del taglialegna sotto il portale di Rashō; la musica è una rielaborazione del Bolero di Ravel che sottolinea e accompagna le sequenze del (presunto) omicidio.

Più che un film sul relativismo, Rashomon è un apologo sulla capacità dell’uomo di mentire e sulle motivazioni che spingono a farlo (per mettersi in evidenza, per aumentare la stima di sé), scrive Aldo Tassone nella monografia su Kurosawa: ma il finale, che da molti fu considerato come una sorta di contentino da offrire allo spettatore, è in realtà una “professione di fede” umanista nella capacità dell’uomo, nonostante tutto, di donare amore.

A posteriori, Rashomon acquisisce anche un significato politico e antiamericano: Tajomaru, con la sua rozzezza, violenza e goffaggine al limite del ridicolo, è l’incarnazione di una figura del folklore giapponese, l’oni, l’orco, personificazione dello straniero. Se è vero che Tajomaru, come testimonia la donna, si è reso colpevole di stupro, allora il personaggio di Mifune rimanda immediatamente all’occupazione degli americani in Giappone (che, lo ricordiamo, si è protratta fino al 1952) nonché alle violenze perpetrate dai militari americani ai danni delle popolazioni locali. Il progressivo cedimento della donna al lungo e voluttuoso bacio cui la costringe il bandito dovette sconvolgere e scandalizzare non poco gli spettatori giapponesi, oltre che essere una sequenza decisamente sovversiva e, appunto, antiamericana.

Il genere giallo o, se si preferisce, del courtroom movie, consentì a Kurosawa di avvicinare un prodotto in costume tipicamente orientale ai gusti occidentali: e da quel lontano festival veneziano, anche per noi europei Kurosawa divenne Tenno, l’Imperatore del cinema del cinquantennio successivo.

 

Rashomon (id.)

Regia: Akira Kurosawa

Distribuzione: Giappone 1950 (b/n, 88 min.)

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