Mamihlapinatapei

di filo-sofia

Mamihlapinatapei; parola della lingua Yaghan, trova il suo significato in quello sguardo di due persone che si piacciono e ognuna di loro vorrebbe fare il primo passo con l’altra, ma entrambe hanno troppa paura.

 

Scendo le scale della stazione con una velocità inspiegabile. Le mie gambe si muovono da sole, ormai sanno anche loro in che direzione andare; sanno cosa devono fare. Mi siedo sulla prima panchina che trovo libera, caccio fuori gli auricolari e metto su un po’ di musica. È un’abitudine che ho da quand’ero piccolo, da quando mio padre mi permetteva di accompagnarlo a lavoro e prendevamo la metropolitana insieme – così, per non farmi sentire troppo forte il rumore del treno che arrivava e che successivamente si muoveva, mi infilava uno dei suoi auricolari nell’orecchio. E io ascoltavo qualunque canzone provenisse da quei fili, felice che lui mi coinvolgesse in qualcosa e ignaro di quanto, in effetti, quell’abitudine sia sbagliata e un po’ pericolosa, poiché si rischia di non sentire il rumore del treno arrivare. Quando però, da più grande, me ne accorsi, era troppo tardi e decisi di lasciar perdere – un po’ per vizio, un po’ perché è, ancora oggi, l’unica cosa che mi lega a mio padre dopo essere andato ad abitare lontano da casa dei miei per lo studio.

Arriva la metro. Mi alzo con uno scatto nervoso dalla panchina, e velocemente mi faccio strada tra le numerose persone che scendono e salgono da lì sopra – mi infilo in un vagone qualsiasi di esso, e quando riesco a sedermi su una sedia il mio cuore inizia a battere più velocemente del normale; sudo freddo nonostante siamo in pieno inverno. Faccio finta di nulla, fingo di non sapere il motivo per il quale sono così nervoso. Eppure, il motivo lo so benissimo: quasi come un movimento involontario del muscolo, i miei occhi cadono puntualmente nella stessa direzione, e cioè quella della porta che collega il vagone dove sono ora a quello successivo. Guardo, e aspetto di vederla arrivare. Guardo, e spero che ogni persona che entra da quella porta sia lei, ma non lo è mai. Dopo qualche minuto, decido di lasciar perdere e abbasso lo sguardo verso i miei piedi, sospirando. Andiamo, che sarà mai? Oggi, magari, avrà saltato la corsa. È stupido rattristarsi solo perché oggi non l’ho incontrata, per favore! È ridicolo, in fondo non so neanche come si chiama. Voglio dire, l’ho sentita essere chiamata qualche volta con il nome di Lara, ma non so se è veramente quello il suo nome. E poi, cosa più importante, non le ho mai parlato. È stupido pensare di avere una cotta per lei, giusto, giusto. Giusto? Non le ho mai parlato, è vero, eppure ogni volta che la vedo una stretta così forte mi morde lo stomaco che mi sento il respiro mancare. Non so nemmeno come si chiama, anche se ogni volta che sorride mi si sciolgono una decina di organi diversi allo stesso momento. Scuoto la testa, sforzandomi di smetterla di pensare a lei e a qualunque cosa che la riguarda. Penso di star diventando pazzo, in effetti.

Alzo lo sguardo solo quando sento delle risate e voci di ragazzi aprire la porta del vagone. Li guardo uno ad uno, e quando vedo anche lei non riesco a trattenere un sorriso che è a metà tra il sollievo e la pura felicità. Ed eccola. Vicino a due ragazze che le parlano e ridono, lei è con le mani in tasca e cerca di sembrare impegnata a fare qualcosa, fallendo miseramente. Il mio sguardo si addolcisce, mille farfalle si muovono incontrollate nella mia pancia e mi fanno fluttuare il ventre, trasportano sulle loro ali il mio stomaco e sembrano trarre divertimento dal farlo. Sorrido osservando quel suo goffo tentativo di apparire indaffarata, e vorrei dirle che non ne ha bisogno, che è bellissima anche quando fissa il vuoto e non sta facendo assolutamente nulla. Vorrei dirglielo, ma non oso aprire bocca. Mi limito solo a guardarla, osservo ogni sua minima espressione facciale – le labbra che si distendono quando sorride o quando ride, dopo una battuta di uno dei suoi amici. Sobbalzo quando il suo sguardo si incatena al mio; devo appoggiarmi alla sedia per essere sicuro di non star sognando. Faccio del mio meglio per ricambiare il sorriso, ma non so onestamente quanto ci sia riuscito.

Sono pessimo. Vorrei avvicinarmi così tanto a lei, accarezzare i suoi capelli corvini e lucidi, poggiare una mano sulla sua guancia rosea che mi sembra così perfetta, così come tutto il resto del suo viso; ma finisco solamente per abbassare lo sguardo, come faccio tutte le volte.

Sono pessimo. Un idiota, uno stupido che non riesce a reggere il contatto visivo con qualcuno per più di due secondi, altrimenti va nel panico. Vorrei parlarle, avere il coraggio di dire anche solo un “ciao”, anche sussurrato, anche senza voce; ma riesco a malapena a sventolare miseramente la mano verso di lei.

Sono pessimo, sì, perché è come se avessi paura che le parole rovinassero tutto quello che c’è stato tra di noi – ché, la maggior parte delle volte, mi succede. Le parole sono pericolose, armi di cui solo poche persone, a mio parere, dovrebbero essere in possesso. Il problema è che tra di noi non c’è stato assolutamente nulla. E io non so proprio da dove cominciare per superare questa relazione che, in fin dei conti, non c’è mai stata. Mi saluta con la mano, ricambio il saluto in modo flebile, poi non reggo più e distolgo lo sguardo, facendo finta che la vecchia donna che sta per addormentarsi sulla mia spalla destra sia più interessante di lei. E invece non è così. Quando la riguardo, ormai è troppo tardi: il treno si arresta, la donna affianco a me si riprende bruscamente, come se qualcuno l’avesse scossa con violenza; lei mi volta le spalle e cammina seguendo a ruota i suoi amici, che escono per primi. In un momento d’inspiegabile audacia mi alzo velocemente, decidendo di raggiungerla prima che esca; ma quando afferro il suo braccio lei ormai è già fuori e ha trascinato anche me giù dal treno, in una stazione dove non dovrei stare perché questa, tra l’altro, non è neanche la fermata alla quale dovevo scendere. Sentendo il contatto della mia mano sul suo braccio nudo e la sua pelle liscia un muscolo della mia mascella si contrae involontariamente; la ragazza di fronte a me si volta e una volta preso il mio sguardo, lo tiene stretto a sé con i suoi occhi verdi, intonati con la sua pelle bianco fumo. Le sue pupille sono foglie di un albero nel pieno della primavera, mentre le mie cortecce dello stesso albero, che sembrano avere come unico compito quello di mettere in risalto le proprie foglie. Ci guardiamo per quella che sembra essere un’eternità, ma nonostante questo, non mi basta. Schiudo la bocca per dire qualcosa, ma non appena lo faccio tutto il coraggio acquistato fino a quel momento sembra tutt’a un tratto scomparire e lasciarmi per sempre. Avrei un fiume di parole da dirle, eppure, per quanto mi sforzi, dalla mia bocca non esce nessun suono. Lei sorride nuovamente, mio malgrado, come per farmi capire che deve raggiungere i suoi amici. Mi guardo velocemente intorno: siamo le uniche due persone ferme in mezzo alla marea che si muove in massa verso l’uscita della stazione, e infatti qualcuno finisce con l’urtarmi la spalla. E io lo capisco quello che devo fare, lo so benissimo. Semplicemente, la lascio andare. Faccio cadere lentamente la mia mano dal suo braccio e, mentre lei mi saluta un’ultima volta, io mi limito a guardarla mentre si allontana e raggiunge i suoi amici, consapevole che, alla fine, non c’è stato alcun bisogno di parlare.

Le parole sono sopravvalutate.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.