Portano i peót, ma somigliano a noi – Shtisel (Israele, 2013-2021)

del prof. Lucio Celot

Diciamolo sinceramente: li abbiamo visti vivere, gioire e soffrire nella loro ristretta comunità ultraortodossa, abbiamo criticato molte delle loro credenze e dei loro riti sociali, siamo rimasti perplessi di fronte all’accanimento con cui studiano e commentano la Torah, per non parlare del modo con cui le famiglie organizzano fidanzamenti e matrimoni per i figli o dell’attenzione che a noi appare quasi patologica verso tutto ciò che è kosher e non lo è…ma quando scorrono i titoli di coda dell’ultimo episodio di Shtisel, produzione israeliana quasi decennale, cominciamo già a sentire la loro mancanza. Sì, perché per quanto Shulem, Akiva, Giti, Lippe, Ruchami, Hanina e tutti i comprimari della comunità di Haridin del quartiere  Geula di Gerusalemme professino una fede diversa dalla nostra, non utilizzino i social, non abbiano una TV in casa, alla fine li sentiamo simili a noi: è un’autentica comédie humaine, dal ritmo e dal respiro ottocenteschi nella sua coralità, la serie che negli ultimi quattro anni (da quando è approdata a Netflix) ha fatto innamorare di sé milioni di spettatori in tutto il mondo, in primis proprio gli israeliani laici, peraltro trattati decisamente male – perfidi maledetti!, li apostrofa più volte zio Nuchem – dalla comune considerazione degli ultraortodossi.

Narrazione corale, si diceva, e come tale difficile da riassumere qui. Un intero quartiere di Gerusalemme, quello di Geula, abitato dagli Haridin, una corrente chassidica, fa da sfondo alle vicende della famiglia Shtisel. Da nonna Malka (che diventa tele-dipendente di Beautiful in un ospizio per anziani), a suo figlio Shulem (ultrasessantenne insegnante e poi preside di una scuola religiosa), ai nipoti Akiva (vero protagonista della serie) e Giti (figlia di Shulem e in crisi a causa del tradimento del marito Lippe), ai giovani pronipoti Ruchami e Yosa, che con le loro scelte sentimentali mettono in difficoltà la propria famiglia, fino ai comprimari che accompagnano gli Shtisel nella loro vita quotidiana (tra tutti, i vari mediatori che combinano i primi appuntamenti tra ragazze e ragazzi per l’eventuale matrimonio), la serie è stata apprezzata soprattutto per avere aperto al mondo un universo sconosciuto e sovraccarico di luoghi comuni che gli sceneggiatori hanno invece provveduto a smentire. È significativo che Shtisel abbia fatto registrare giudizi positivi sia di pubblico che di critica pur essendo priva di tutti gli elementi tipici dell’intrattenimento mainstream: non ci sono sesso, violenza, turpiloquio, armi, sparatorie, finanza aggressiva e qualunque altra cosa vi venga in mente quando pensate alle serie tv di successo. E questo perché lo sguardo rivolto alla comunità di Geula è scevro di pregiudizi ideologici, religiosi o valoriali: semplicemente, le vite di Akiva o di Giti sono esattamente come le nostre, con le stesse ansie (i soldi che non bastano, l’educazione dei figli), gli stessi dilemmi (seguo le mie passioni o mi trovo un lavoro rispettabile che mi consenta di mettere su famiglia?), solo vissute alla luce di una guida che è quella dei dettami religiosi, seguiti e rispettati non per mera abitudine esteriore ma con la consapevolezza che solo la Torah e i suoi precetti assicurano al singolo la salvezza ed un ruolo nella comunità. Ci sono, insomma, un affetto, una pietas, un umorismo di fondo e soprattutto un’empatia nel modo di raccontare l’ebraismo ultraortodosso che azzerano nello spettatore laico qualunque atteggiamento di superiorità morale o intellettuale.

D’altra parte, se da un lato si ha la sensazione che in Shtisel non succeda granché (o quasi), è anche vero che ogni storia è tale soltanto in quanto porta con sé un conflitto: e qui di conflitti ce ne sono parecchi. A partire da quello che dà continuità alle tre stagioni, lo scontro generazionale tra Akiva e il padre Shulem: il primo è un giovane trentenne che scopre di avere un talento per la pittura e il disegno, e vorrebbe farne una professione, specie quando un gallerista di prestigio gli organizza addirittura una personale nel quartiere; l’altro, il padre (meglio, il Padre), lo vorrebbe vedere “sistemato”, sposato e con una professione “normale”. Già affrontato in un classico dell’ebraismo, Il mio nome è Asher Lev (1972) del rabbino-scrittore Chaim Potok, è il conflitto che, d’altra parte, alberga nello stesso cuore di Akiva, dimidiato tra l’inclinazione artistica e il rispetto per le regole della religione (che vieta la rappresentazione iconografica del creato) e la rispettabilità agli occhi della comunità. Si tratta, in fondo, del racconto di un parricidio, consumato non senza tentennamenti e crisi di coscienza, ma anche favorito e accelerato da un’inaspettata irruzione dell’elemento sentimentale. Ma anche altri personaggi vivono scissioni e lotte interiori: Giti, l’altra figlia di Shulem, deve fare i conti con un marito che per un lungo periodo l’abbandona, la tradisce e poi ritorna a casa. Lo ha davvero perdonato? E Lippe, il marito fedifrago (altro personaggio tra i più riusciti della serie), davvero si è pentito? Come spesso capita, sarà in un momento drammatico per la vita della famiglia che i nodi verranno (positivamente) al pettine. E, naturalmente, non poteva mancare la ribellione dei Figli ai Padri: le nuove generazioni, pur nel rispetto dei sacri precetti, vogliono dare ascolto anche ai propri sentimenti, non solo a quanto la comunità o la famiglia decidono per loro. Yosa e Ruchami, i figli di Giti e Lippe, daranno non poche preoccupazioni ai genitori per la loro scelta di vivere liberamente le rispettive storie d’amore.

Dunque, niente stereotipi né cliché nel racconto dei cinque-sei anni lungo i quali si dipanano le storie della numerosa famiglia Shtisel in quel di Gerusalemme; anzi, scopriamo con sorpresa e partecipazione quanto la vita di quegli uomini vestiti sempre di nero, che studiano per un’intera esistenza nelle loro Yeshivot i testi sacri e che si muovono in quel modo curioso davanti al Muro del Pianto, quando tornano a casa sono esattamente il nostro specchio, pur se è un dio diverso dal nostro quello che quotidianamente pregano e li accompagna. Humani nihil a me alienum puto…

 

Shtisel (id.), Israele 2013-2021

Stagioni 1-3 (ep.1-33)

Distribuzione: Netflix

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