Tra reale e surreale, l’ignoto – “Orfanzia” di Athos Zontini

di Francesca Pia Piantarosa, Giulia Scognamillo e Alessia Simonetti (IG)

Salve a tuttə Pansinianə! 

Oggi vi proponiamo un libro letto per la scuola, ma fidatevi, non è il tipico romanzo di formazione adolescenziale o un classico rinomato; siamo sicure che vi sorprenderà, soprattutto perché abbiamo avuto il piacere di incontrare il suo autore e di farci raccontare qualche dettaglio inedito a riguardo.

L’autore in questione è Athos Zontini, sceneggiatore napoletano noto per il suo lavoro nella celebre soap opera “Un posto al sole”, che nel 2016 ha esordito nell’ambito della letteratura con “Orfanzia”. Un debutto non facile, una sfida, una continua ricerca di sperimentazione. Già dal tentativo di collocarlo in un genere letterario ben definito, Athos stesso afferma di essersi avventurato nel cosiddetto “realismo magico”, un sottogenere della letteratura fantastica esplorato solo da pochi scrittori, ma ricco di potenzialità sul piano narrativo. Le vicende raccontate avvengono in un mondo reale, dove però esistono delle condizioni, delle dinamiche inverosimili che l’autore non deve necessariamente spiegare, in quanto peculiari proprio del mondo in cui avvengono i fatti: ecco ciò che ha permesso all’autore di dare libero sfogo alla sua creatività, la facoltà di restare in quel “solco” tra il reale e il surreale.

Nel mondo che accoglie la trama di “Orfanzia”, la condizione è quella che tutti i bambini vengono mangiati dai loro stessi genitori una volta cresciuti a sufficienza, e a conoscerla è soltanto il protagonista, un bambino di otto anni che rifiuta il cibo, che vede i suoi amici scomparire da un giorno all’altro. Lui soltanto sa la verità, la sua vita scorre ripetendosi ogni giorno “Per non essere mangiato, non devo mangiare”: un istinto di sopravvivenza più forte dei suoi bisogni primordiali che gli causa non pochi problemi nel rapporto coi suoi coetanei e soprattutto con gli adulti, ancor di più con i suoi genitori. Un bambino troppo maturo per la sua età, ma che sa farsi intendere esprimendo il suo pensiero in maniera coincisa, schietta, servendosi a tratti di immagini macabre e non adatte ai deboli di stomaco. Un bambino che non è stato scritturato come tale, perché non ha corpo e non ha nome, vive in una città non definita, in una casa non descritta; è una voce impersonale, uno stato d’animo che si presta al servizio della società intera e non soltanto di una porzione circoscritta al suo interno, affinché tutti possano immedesimarsi nella narrazione.  

L’anonimato di cui l’autore è riuscito a servirsi egregiamente in tutta la stesura del romanzo, imponendoselo proprio come esercizio di stile, ha come funzione dominante quella di enunciare una profonda critica alle famiglie disfunzionali, attaccando specialmente quei genitori che scappano dai loro doveri o trascurando o pretendendo troppo dai loro figli, cioè dandogli solo da mangiare o “mangiandoli”. In entrambi i casi viene meno l’essenza stessa del mestiere del genitore, lavoro ritenuto da Athos “Il più difficile del mondo”, che deve guidare il figlio nel suo processo di crescita affiancandolo nelle avversità della vita; è facile per un bambino cresciuto in un contesto del genere sentirsi quasi orfano, “orfano d’infanzia” come suggerisce il neologismo coniato per il titolo dell’opera, ed è altrettanto difficile per lui riuscire ad accettare i suoi genitori dopo aver compreso quanti torti gli hanno recato.

“Orfanzia” è dunque un romanzo sui generis in tutto e per tutto, in grado di suscitare pareri e sensazioni contrastanti ma estremamente profonde, a tal punto da riuscire a “mangiarti” l’anima: provare per credere, non abbiate paura di ac-crescere i vostri orizzonti di lettura!

 

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