Costruire sulle macerie: il cinema di Jia Zhangke – 24 City (J.Zhang-ke, 2008)

del prof. Lucio Celot

C’è un anno che fa da spartiacque nella storia recente della Cina, ed è il 1976: Mao Zedong, il Grande Timoniere, muore e inizia il processo alla cosiddetta “Banda dei Quattro”. La nuova classe dirigente cinese chiude così il conto con la prima fase della storia della Repubblica Popolare, quella del fallimentare “Grande balzo in avanti” e dell’ancor più tragica Rivoluzione Culturale, spianando altresì la strada verso il socialcapitalismo avviato da Deng Xiaoping all’inizio degli anni ’80.

Un passaggio epocale di tale portata, unico nel suo tentativo di sintesi tra statalismo e capitalismo, tra autoritarismo e libero mercato, non poteva non condizionare anche la produzione cinematografica cinese: una vera (questa sì!) rivoluzione culturale ha interessato il cinema, che si è trasformato da potente strumento di propaganda a qualcosa di profondamente diverso, autentico sismografo del terremoto socio-economico che ha scosso il paese.

Già con la cosiddetta “quinta generazione” di registi, quella di Zhang Yimou e Chen Kaige, il cinema ha fatto i conti con il dramma della rivoluzione culturale maoista: Addio mia concubina (Chen Kaige, 1993) e Vivere! (Zhang Yimou, 1994), con la loro messa in scena dei “processi al vecchiume” confuciano e burocratico, sono i titoli più noti in occidente.

Ma è dopo il trauma di Piazza Tienanmen del giugno1989 che si fa strada un’altra generazione di cineasti, la “sesta”, tra i quali spicca la figura di Jia Zhang-ke, classe 1970, l’autore che più degli altri ha registrato, sia nei documentari che nei lungometraggi, la “grande trasformazione” del dragone cinese. Il film che rappresenta al meglio questa rincorsa alla modernità con il suo corollario di distruzione di un tessuto economico e culturale secolare (se non millenario) è certamente 24 City, un lavoro originale nel mescolare documentario e fiction. La costruzione di un hotel di lusso al posto di una vecchia fabbrica di armi in una località del Sichuan è il pretesto per una serie di interviste agli ex lavoratori della stessa fabbrica, donne e uomini demotivati, sradicati fisicamente e professionalmente: in posa davanti alla macchina da presa di Jia, appaiono allo spettatore come dei fantasmi malinconici, assorti, lo sguardo fisso nel vuoto o, forse, nei ricordi di una vita in cui il senso di appartenenza ad una comunità di lavoratori dava un senso all’esistenza. Fa da scenario alle interviste un paesaggio di macerie, frammenti di macchinari, capannoni diroccati, una sorta di dimensione “archeologica” e di generale dismissione che fa da correlato al lavoro di distruzione ben più profondo operato dall’establishment politico.

Jia sceglie di parlarci della realtà mescolandola con la fiction, e in questo, come si diceva, sta la particolarità della sua scelta registica: mentre alcune interviste sono autentiche, altre sono affidate a note attrici come Joan Chen o Zhao Tao (quest’ultima una presenza ricorrente nei film del regista), bravissime nell’alternare al racconto delle proprie vite lunghissimi silenzi che la camera riprende con inquadrature fisse, quasi a voler rimarcare quanto il repentino passaggio alla dimensione della modernità precipiti l’individuo in una condizione di solitudine e alienazione. È il prezzo da pagare per una mutazione che non è solo socio-economica ma, inevitabilmente, anche antropologica.

 

 

24 City (Er shi si cheng ji)

Regia: Jia Zhangke

Distribuzione: Cina, Hong Kong, Giappone 2008 (col., 112 min.)

 

 

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