Edward Said: come l’Europa ha costruito l’Oriente

del Prof. Lucio Celot

Scomparso nel 2003, anglista e docente universitario, raffinatissimo intellettuale palestinese trapiantato a New York, Edward Said ha a lungo riflettuto sulle modalità attraverso cui la cultura e i poteri occidentali hanno costruito la rappresentazione di quella particolare entità che va sotto il nome di “Oriente”. Pubblicato nel 1978, Orientalismo ripercorre le tappe e decostruisce le strutture dell’atteggiamento europeo che hanno impedito il farsi di un discorso autenticamente libero sull’oriente e che sono servite invece alla formazione e alla costruzione dell’identità occidentale attraverso l’opposizione/comparazione con l’altra parte del mondo.

“Oriente” è, dunque, secondo Said, un sistema coerente di idee prodotto non per semplice gusto di immaginazione ma da una posizione di forza, da configurazioni di potere e complessi rapporti di egemonia politico-culturali. L’orientalismo è espressione del dominio euroamericano, un corpus teorico-pratico attraverso cui l’oriente è penetrato nella coscienza degli occidentali, funzionale alla costruzione del noi in contrapposizione a loro. Tutto il cosiddetto “sapere orientalistico” è inquinato e viziato dal coinvolgimento, più o meno consapevole – da Dante a Shakespeare, da Napoleone a Bush, da Champollion a Lawrence – degli interessi europei in oriente (vicino, medio, lontano). L’orientalismo è perciò il distribuirsi di una posizione politico-culturale entro un insieme di testi e istituzioni, è l’elaborazione di una distinzione geografica tra due metà ineguali. Il nesso tra imperialismo e cultura è essenziale per la comprensione della questione: l’interazione dinamica tra autori e politica dei tre grandi imperialismi otto-novecenteschi (Francia, Gran Bretagna, USA) ha sprigionato energie che hanno edificato la visione orientalistica. Per cui, dice Said, un “oriente oggettivo” e un “orientalismo scientifico” non sono mai esistiti; anzi, in epoca contemporanea-postmoderna gli stereotipi sull’oriente si sono rafforzati e standardizzati, addirittura iperpoliticizzati a causa del conflitto arabo-israeliano, dei pregiudizi antiarabi e antislamici, del terrorismo internazionale e della mancanza di una solida prospettiva culturale per la comprensione del mondo arabo.

La scoperta e la conoscenza dell’oriente da una posizione di forza (a partire dal Settecento) costituiscono il primo nucleo dell’orientalismo: quella sorta di “idea platonica” dell’orientale che parla, agisce, vive e pensa esattamente al contrario dell’europeo. In altri termini, l’orientale è sempre rappresentato e contenuto in un sistema di categorie preesistenti. Pertanto, l’orientalismo è anche un modo di dispiegarsi della forza di una cultura, quella occidentale, che ha dato all’Europa la consapevolezza di controllare gran parte del globo. Allo stesso tempo, orientalismo significa anche costrizione e limitazione del pensiero, essendo costruito da una serie di idee, informazioni e valori ben radicati, da cui è ben difficile prescindere.

L’orientalismo tradizionale, ma anche quello contemporaneo (alla Huntington, tanto per intenderci, il politologo che parlava di “scontro delle civiltà”) concepisce le culture e le civiltà come dislocate su una linea di “faglia” e contrapposizione ed esorta l’occidente a controllare e governare “l’Altro” in nome di una presunta superiorità culturale e giuridica. L’antropologia culturale insegna che ogni civiltà tende a costruire la propria identità in forma negativa, attraverso la contrapposizione tra uno spazio familiare, “nostro” e uno spazio esterno, “loro”: la geografia sottesa all’orientalismo è una geografia immaginaria, mentale. Già presente in Omero (Iliade) e Eschilo (Persiani), l’oriente è percepito come minaccia e pericolo: è questa la lente deformante che impedisce di cogliere il diverso e spinge all’addomesticamento dell’Altro, considerato solo come versione distorta e “perturbante” di ciò che ci è familiare. Rappresentare è controllare, rendere meno temibile ciò che minaccia; rendere l’oriente un’immagine ha lo scopo di rappresentare non ciò che esso è in sé ma ciò che significa per noi; significa ridurre lo spazio illimitato oltre il mondo europeo ad un vero e proprio palcoscenico – chiuso – ad uso del pubblico occidentale. L’oriente viene orientalizzato: la verità dipende dal giudizio e dalle opere degli orientalisti (viaggiatori, scrittori, accademici) e non dalla realtà oggettiva. Il lettore europeo accetta le codificazioni e le rappresentazioni come se fossero la verità sull’oriente. Una vera e propria “trasformazione disciplinata” (e disciplinare, avrebbe detto Foucault) che non è andata moderandosi, si è anzi accentuata sino ai giorni nostri.

Da discorso di dotti a istituzione imperialista, l’oriente e l’orientale sono oggetti di studio, non soggetti dotati di storia e autonomia propria; l’oriente è caratterizzato tipologicamente per mezzo di concezioni essenzialiste e astoriche; l’orientale è perennemente identico a se stesso; l’orientalismo è una forma di egemonismo eurocentrico. Si capisce allora la crisi delle certezze orientaliste all’indomani della rivolta araba guidata dall’ambiguo Lawrence e con la comparsa del cosiddetto Terzo Mondo nell’epoca del bipolarismo: la risposta armata e politicamente attiva del nazionalismo arabo e dell’anticolonialismo in generale venne condannata come irrazionale e antidemocratica per il semplice motivo che il termine “autogoverno” non ha nel mondo islamico lo stesso significato che ha in occidente.

In tempi di rinascita di sovranismi e populismi, di leggi anti-immigrazione e di revanscismo razzista nemmeno tanto strisciante ma esplicito, urlato e violento, la lettura di Said mi pare un ottimo antidoto a ogni presunzione di superiorità culturale e a certe ideologie disumanizzanti che sminuiscono l’umanità dell’altro in nome di un malinteso e strumentale senso di nazione i cui effetti sono, oggi, sotto gli occhi di tutti.

Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 2001.

 

 

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