Cos’è l’uomo? Sogno di un’ombra
del prof. Eduardo Simeone
Due mie gentilissime alunne della classe II G, mi hanno richiesto con estremo garbo e gentilezza, un contributo su qualche aspetto della cultura greca. Volentieri accolgo (ne sono lusingato) questa richiesta e spero di fare cosa gradita spendendo due parole sulla concezione greca (arcaica e classica) della condizione umana.
[…] ἐν δ’ὀλίγῳ βροτῶν
τὸτερπνὸν αὔξεταῐ·οὕτωδὲ καὶ πίτνειχαμαί,
ἀποτρόπῳγνώμᾳσεσεισμένον.
ἐπάμεροι·τί δέ τις; τί δ’οὔτις; σκιᾶς ὄναρ
ἄνθρωπος. ἀλλ’ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθῃ,
λαμπρὸν φέγγος ἔπεστιν ἀνδρῶν καὶ μείλιχος αἰών.
In un attimo dei mortali cresce
la gioia, ma allo stesso modo a terra precipita
se scossa da contrario volere divino.
Effimeri siamo: cos’è qualcuno?
cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra
è l’uomo. Ma se un lampo giunge, disceso dal cielo,
allora splendida luce gli uomini investe,
e dolce diviene la vita. (Pindaro Pitica VIII, 92-97)
Tratta da una gnome pindarica, questa commovente riflessione sulla fragilità umana, simbolo del cosiddetto pessimismo greco, ebbe ed ha ancora grande fortuna. Basti pensare che l’espressione σκιᾶς ὄναρ sogno di un’ombra è ricordata nello Zibaldone da Leopardi, in un commovente ed intenso discorso sulla possibilità di ricantare le illusioni, pur nella consapevolezza del nulla che è l’uomo e nella coscienza dell’arido vero. Effimeri (ἐf»μεροι in attico) sono dunque gli uomini, la loro sorte è incerta ed esposta alla mutevolezza del destino, ma, come notò Hermann Fraenkel, finissimo filologo tedesco, esaminando etimologicamente le varie sfaccettature del termine ἐf»μεροj, sono essenzialmente creature di un solo giorno, capaci in sostanza di pensieri transitori, mutevoli, di risoluzioni e propositi destinati spesso a cambiare e/o a fallire. Non a caso, nel VI libro dell’Iliade, Glauco rispondeva a Diomede che gli chiedeva la sua discendenza “Grande figlio di Tideo, perché mi domandi chi sono? Le generazioni degli uomini sono come le foglie: il vento le fa cadere a terra ma altre ne spuntano sugli alberi in fiore quando viene la primavera. Così le stirpi degli uomini, una nasce, l’altra svanisce”. Dunque anche questa similitudine uomo-foglie che ispirò un notissimo frammento di Mimnermo, andava nella stessa direzione; fragile e malcerta per i Greci era la condizione umana, tanto che nell’Edipo a Colono (vv. 1225-1227 l’ultraottantenne Sofocle ribadiva – ma il pensiero si trovava già nella silloge teognidea e lo si potrebbe considerare una sorta di comune Weltanschaung degli Elleni – ammonendo): μὴ φῦναι τὸν ἅπαντα νικᾷ λόγον· τὸ δ’ ἐπεὶ φανῇ βῆναι κεῖθεν ὅθεν περ ἥκει, πολὺ δεύτερον, ὡς τάχιστα “Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti”. Lo stesso concetto traspare nel primo libro delle Storie di Erodoto dalla storiella di Cleobi e Bitone (i fratelli che ricevettero la morte come dono dagli dei per la loro pietà filiale come la ottenne Marcellino da Dio, in un capolavoro della cinematografia ormai dimenticato, Marcellino pane e vino). Solone la racconta allo straricco, potente e vanesio re dei Lidi, Creso, che avrebbe voluto essere riconosciuto come l’uomo più felice del mondo (e come non pensare almeno a Edipo che si definì, nell’Edipo Re, figlio della Fortuna?). Alla fine del dialogo, di fronte alle rimostranze del re dei Lidi, il saggio Ateniese conclude” Creso tu interroghi sulla condizione umana un uomo che sa quanto l’atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere ogni cosa […] Creso, tutto per l’uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re di molte genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a te prima di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita”.
Eduardo Simeone