L’imprenditore liberista come il Principe di Machiavelli? Considerazioni su Machiavelli for Managers

di Andrea Fattorusso (IIA)

Ursula Valmori è un’esperta di psicologia del lavoro che collabora con la rivista di Scienze Psicologiche “State of Mind”, nella quale fornisce contributi a carattere scientifico-divulgativo sui temi della psicologia del lavoro applicata agli ambiti della selezione e valutazione del personale, della formazione e dello sviluppo delle risorse umane. La Valmori ha pubblicato un saggio (qui la versione integrale) in cui rilegge il Principe di Machiavelli per trarne alcuni consigli utili ai dirigenti d’azienda. Se ne riportano alcuni passaggi, seguiti da un breve, personale commento.

 

Ora, è chiaro che Machiavelli non era di certo interessato alla gestione organizzativa aziendale; tuttavia egli dedicò molte delle sue energie all’analisi delle regole che sottostavano ai giochi politici ed istituzionali del suo tempo, fornendo ai posteri dettagliate spiegazioni sul governo degli Stati, con particolare attenzione al perseguimento del bene comune, che può essere ottenuto solo attraverso l’unione di tutti gli individui, ma a tal fine si rende necessaria la presenza di una figura forte, che unisca le masse e ne annienti le tendenze conflittuali.

Questo individuo virtuoso, spesso egoista, generatore di istituzioni forti e stabili, si incarna perfettamente nel Principe descritto da Machiavelli nell’opera ‘De Principatibus’. È facile a tal punto intuire come quest’ uomo possa essere facilmente elevato ad emblema di leader. Le qualità che secondo Machiavelli deve possedere un principe ideale sono: la disponibilità a imitare il comportamento di grandi uomini a lui contemporanei o del passato; la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo; il comando sull’arte della guerra; la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere; prudenza; saggezza; capacità di essere simulatore e gran dissimulatore; capacità di essere leone, volpe e centauro per forza, astuzia e ragione.

E inoltre, Machiavelli, estremamente realista, riteneva che il principe avesse sempre bisogno del favore dei suoi sudditi e che fosse necessario per lui possedere l’amicizia della gente. Ancora una volta Machiavelli risulta estremamente attuale: un leader, analogamente al principe, deve basare il proprio potere sulla gestione della tensione, sulla creazione del consenso ed adottare uno stile di leadership adatto alle risorse che guida ed all’ambiente in cui si trova ad operare.

 

Con un atto di estrema onestà intellettuale, sono costretto ad ammettere che le riflessioni di Ursula Valmori non mi trovano per niente concorde. In primis, l’autrice prende le mosse a partire da una considerazione errata, ossia l’idea che la condizione discriminante ed assolutamente necessaria affinché, in ogni circostanza, vi sia il benessere comune, risieda nella presenza di una “figura forte, che unisca le masse e ne annienti le tendenze conflittuali”. Come emerge nei Discorsi, al contrario, Machiavelli dà la sua preferenza allo stato repubblicano proprio perché esso ha i mezzi più efficaci per unificare e armonizzare gli interessi, spesso divergenti, dei cittadini. Pertanto, il Principe, opera strettamente e inscindibilmente legata al drammatico contesto storico in cui fu scritta, auspica l’avvento di un singolo statista come soluzione straordinaria e assolutamente provvisoria per risolvere la grave crisi in atto e ricostituire l’unità del Paese. A partire da quest’ultima considerazione, la figura del principe “nuovo” delineata nel Principe e le sue virtù non possono necessariamente prescindere da quel preciso contesto storico e dal fine cui Machiavelli tende, cioè il raggiungimento dell’Italia unita. Pertanto tale unico fine non giustifica, bensì spiega i mezzi (concetto che sembra confondersi nel saggio di Ursula Valmori) tra cui è annoverata anche l’azione militare, come emerge nell’ultimo capitolo. Di conseguenza, anche da un punto di vista politico, la figura del principe andrebbe riadattata alle circostanze attuali, come del resto ha fatto con grande perizia Antonio Gramsci, identificandola con il partito politico, “la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire totali e universali”.

Se da un punto di vista politico, dunque, il modello del principe “nuovo” machiavelliano è oggi inapplicabile, lo è ancor meno sul piano aziendale e imprenditoriale. Mentre, infatti, la moderna scienza politica inaugurata da Machiavelli può rivendicare un certo spazio di autonomia e di indipendenza da qualsiasi disciplina che si occupi dell’agire umano, l’imprenditoria non può godere della medesima libertà. Nonostante oggi siano pressanti le tendenze che vanno in direzione opposta, di cui sono promotori, fra gli altri, Milei e Trump, è indispensabile favorire certamente la libera impresa da un lato, ma anche porre l’accento su come ciò non sia possibile senza uno stato solido dall’altro. Pertanto, l’imprenditore non può e non deve essere “simulatore e dissimulatore”, ingannando gli altri, tra cui i propri impiegati e lo Stato stesso, al misero fine di promuovere i meri interessi personali. Non può essere considerato furbo colui che non paga le imposte statali o trova i modi per non farlo, o colui che si serve dei pochi incentivi statali, promossi per causa nobile, solo per arricchirsi, ma un meschino delinquente che è privo anche del minimo senso di comunità.                 

Il “leader” delineato da Ursula Valmori è così una figura che s’iscrive appieno nell’estremo liberalismo e individualismo economico con il quale, però, non esisterebbe quello stato, garante del benessere comune, tanto agognato da Niccolò Machiavelli.

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