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Close: e se l’assenza fosse la forma più pura della presenza?

di Marta Cardillo(IIA)

 

E se l’assenza fosse la forma più pura della presenza?

Close (L.Dhont e A.Tijssens, 2022)

Close è come osservare al microscopio un piccolo esserino, senza sapere cosa sia la vita, o scomporre un orologio per capirne il funzionamento, senza conoscere il tempo. È una cicatrice che spicca sulla pelle scura: bianca, sottile, visibile, dolorosa. Non è un’opera facile. Resta incastrata in quel punto fastidioso della gola e stringe senza pietà. Ti mette davanti a un puzzle senza l’immagine di riferimento, eppure i pezzi sono lì, e combaciano. Ma allora, perché è così difficile metterli insieme? Se dovessimo descrivere la tematica del film con una sola parola, diremmo: adolescenza. Ma Close la affronta con una durezza che si nasconde dietro il moto morbido delle scene, i colori ovattati, i respiri lenti. Non è l’adolescenza patinata, fatta di ribellioni e passioni travolgenti, ma quella più cruda e silenziosa: l’età in cui si sperimenta la perdita, il senso di colpa, il giudizio, la ricerca di sé stessi. È un’età di passaggio in cui i legami più puri possono incrinarsi sotto il peso dello sguardo altrui. Epicuro ci insegna a non temere la morte, perché quando lei arriva, noi non ci siamo più. Ma cosa accade quando la morte la vediamo in faccia? Quando la scegliamo? Dhont non dà risposte: ci lascia immobili davanti alla vertigine dell’assenza, dello strappo, della fragilità dell’esistenza. La tragedia non viene spiegata, analizzata, giustificata. Viene solo mostrata. E in questo gesto c’è una forza disarmante. Ti lascia in preda a mille domande. Ti mette davanti a un comportamento insolito, al quale non puoi reagire, nonostante i personaggi ti guardino, ti parlino, ti ricordino che alla fine sei solo uno spettatore.

Léo e Rémi sono legati da un’amicizia profonda, viscerale. Un legame che sfida il significato stesso del termine “amicizia”. Un’intimità che appartiene al mondo dell’infanzia e che, nell’impatto con la scuola, con gli altri, con le aspettative sociali, comincia a deformarsi. Léo è incapace di gestire ciò che prova, e le voci degli altri sovrastano la sua. Gli consegnano in mano le forbici per tagliare il filo che lo lega a Rémi. Ma l’allontanamento non è mai neutro: è un atto che lascia ferite. È un addio lento, ma devastante. Il regista ce lo concede a piccoli morsi. Ripete le scene, ma qualcosa cambia. Qualcuno manca. Questo non è un film che si limita a raccontare una storia: la costruisce. La scolpisce nei simboli, nei suoni, nei silenzi, nei dialoghi, nei colori. Guardarlo è come camminare bendati nella propria casa: un percorso che dovrebbe essere semplice, perché familiare, eppure è pieno di ostacoli invisibili. Anche conoscendo a memoria la posizione dei mobili, delle porte, degli specchi, si finisce per urtarli. Così, anche chi guarda Close già consapevole della direzione in cui la storia sta per scivolare, continua a sperare. Sperare che i silenzi si sciolgano in parole, che le lacrime siano preludio di un ricongiungimento, e non il segno di una perdita irreversibile. Ogni inquadratura è curata con attenzione pittorica, eppure non è mai fredda. I campi lunghi immersi nella natura, i primi piani che sfiorano i volti dei ragazzi, il rumore della pelle che si tocca: tutto contribuisce a creare un mondo sospeso, quasi irreale. Come se il regista volesse imprimere nella nostra mente le immagini di un universo parallelo, quello che sarebbe potuto esistere.

L’interpretazione dei giovani attori, in particolare di Eden Dambrine (Léo), è meravigliosa. Dopo la rottura, il silenzio regna sovrano. È come aspettare l’esplosione di una bomba, senza sapere quali danni provocherà. Close è un film che non urla, ma resta. Resta come una domanda senza risposta. Non ci offre consolazione, ma ci invita ad ascoltare ciò che spesso scegliamo di non sentire: il disagio, la confusione, la colpa, il rimpianto, il lutto.

 

Close (id)

Regia: Lukas Dhont

Distribuzione: Francia-Belgio 2022 (col., 104’). Disponibile su Amazon Prime Video

 

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