Concorso letterario “Giovanni Pontano”- il Pansini è stata una delle scuole più premiate

 

“È tempo di essere se stessi”: è stato questo il tema centrale da affrontare per la partecipazione alla seconda edizione del concorso letterario “Giovanni Pontano”, istituito dall’omonimo liceo col fine di incitare i ragazzi di tutta Italia a esprimere il proprio essere attraverso diverse forme d’arte.

Anche alcuni pansiniani hanno partecipato alla competizione, cimentandosi nella stesura di veri e propri squarci di sé, sia in versi, sia in prosa.

La nostra scuola è stata una delle più premiate, ma, al di là dei risultati, la partecipazione a tale concorso ha dato la possibilità ai ragazzi di ricordare, ancora una volta, la funzione curativa della letteratura e della scrittura, veri e propri balsami per l’anima, soprattutto in un momento storico così lacerante e critico.

La premiazione, che si è tenuta sabato 18 maggio nel suggestivo Salone degli specchi presso l’istituto Pontano, ha regalato a tutti i partecipanti un ricordo reso indelebile da emozionanti discorsi e da presenze particolarmente rilevanti (come il rettore della Federico II e diversi giornalisti) e, soprattutto, è stata l’ennesimo salvifico promemoria della meraviglia delle parole, grande φάρμακον della società.

 

Qui di seguito alleghiamo gli inediti dei pansiniani che hanno partecipato al concorso e che hanno ottenuto dei riconoscimenti.

 

 

“Il faro in mezzo al mare”, poesia di Ginevra Fracasso (IIA), vincitrice del 1° posto nella sezione poesia:

 

Raccolgo me stessa

nella nube cosmica dei tuoi occhi.

Capitano della mia esistenza,

tu guidi ciò che ci resta

nell’oscurità degli abissi

bramosi di noi.

Vela del mio spirito

è la tua anima

gentile, luminosa;

vuoi essere lanterna nel mio vuoto,

ma, ti supplico,

non lasciare che le onde

pregne di quel sale tagliente

spengano il lampo di vita

che percorre le tue arterie.

Sei le parole disperse nella mia bocca,

informi, immense parole impossibili,

incomprensibili a chiunque

voglia provare a concepire

l’immensità indefinibile

che anima l’amore sovrumano

che sento

guardando in questi tuoi occhi

spogliati d’ogni realtà.

Dio, l’anima si contorce senza poter dare forma

a questo cratere.

Ma, ti prego,

non guardarmi

come se potessi condurmi alla salvezza;

allontana piuttosto questa accecante, illusoria luce, quella della luna,

alone delle tue granitiche iridi.

Io voglio il buio della tempesta,

questo respiro smarrito,

quelle lacrime d’arte e d’inchiostro,

tracciando con la penna

la ferita dell’anima

piccolissima

che abita e nutre

la mia felicità barcollante,

le onde che logorano

l’immobile faro solitario in questo mare

così profondo,

che toglie il respiro,

che strappa un raggio di vita

dai corpi dei perduti uomini.

Lasciami alla flebile luce

della stella più lontana,

eterno approdo

dell’insostenibile

pesantezza del niente.

 

 

 

“Il nostro tempo”, racconto di Pietro Aldo Mocerino (IIG), vincitore del 2° posto nella sezione narrativa:

 

Sono così. Come gli altri mi vedono. Loro, però, osservano solo la

faccia visibile della luna, senza andare oltre. La mia timidezza, ad

esempio, non è timore degli altri, ma un aprirsi poco a poco, con

i miei tempi, che non sempre sono quelli di chi mi sta davanti. È la

promessa di un incontro diverso da quei venti impetuosi che ti

rapiscono, piuttosto è lieve come il soffio della primavera, che ti

carezza quando la luce del giorno resiste alle ombre della sera.

Sono timido perché aspetto, anche per te, l’attimo giusto per

aprire il cuore.

Sono anche silenzioso, ma di un silenzio che non è vuoto di parole.

Perché le parole pesano ed è giusto non schiacciare chi ascolta

sotto il peso di sentimenti o passioni che, una volta liberati,

possono ferire, se non governati da un cuore calmo. Non è vero

che non parlo tanto, parlo, invece, quando so che ti senti solo e

stanco, sola e stanca. Quando credi che nessuno ti capisca; forse,

per gli altri, posso essere anche nessuno, ma ti comprendo e,

senza parlare, lascio che tu ascolti, nel mio silenzio, di quando

pure io mi sono sentito tradito, isolato e non capito. So cosa si

prova e se, silenziosamente, affianco la tua amarezza è per fare in

modo che, almeno, tu possa respirare e riprendere le forze.

Non ti fisso con i “rai fulminei” di un Napoleone prigioniero su uno

scoglio assediato dal mare. I miei occhi non saettano fuoco e

fiamme, non amo far guerra e conquistare. Non sono il

condottiero di nessuno, se non di me stesso. E se qualcuno mi

ferisce con un’occhiata di quelle che sono assassine, perché

uccidono ogni speranza di pace, allora abbasso i miei di occhi,

perché non voglio che muoia l’ultima possibilità di incontrarci.

Preferisco che tu mi creda un codardo, piuttosto che piangere la

morte di un altro sogno, perché troppi ne ho pianti.

Parlo piano, quasi con un sussurro, una piccola verità proposta,

mai imposta. Per farti comprendere che, se e quando vuoi, ci

sono, ti aspetto, e pure se non senti quel che dico e mi chiedi di

ripetertelo, non alzo il tono, perché tu non creda che ti giudico

superficiale e poco paziente. La mia non è una protesta, ma solo

la voce di chi ti prega di ascoltare, perché, forse, perfino io posso

dire qualcosa che può aiutarti o, almeno, farti compagnia,

seppure per poco.

Il mio è un tempo calmo, anche lento, nella fretta mi smarrisco.

Ho bisogno di riflettere e di valutare bene se, da ciò che dico e

faccio, può nascere un aiuto o un danno. Gli altri corrano pure,

con le gambe ed il pensiero, io non lo impedirò, anche se credo

che in questo affannarsi senza sosta non si colgano più i punti

fermi, quelle stelle fisse che cerchiamo quando è notte e non

sappiamo dove dirigerci. So che la mia lentezza a volte ti esaspera

e me la rovesci in faccia, come una colpa che non si può

perdonare, vorrei dirti che è solo il bisogno di prestare attenzione

e di proteggere anche te, ma anche per far questo avrei bisogno

di più tempo e tu non me lo permetti.

Non temere, però, non sono né il tuo giudice, né il tuo accusatore,

che urla a tutti che sei colpevole, attendendo che giustizia sia

fatta. Quella giustizia non scritta in nessun codice o legge, ma

figlia di un impulso irrefrenabile e di una convinzione indiscutibile,

quella giustizia che ciascuno si crea da solo perché è giusto quello

che ognuno crede sia tale, così da sentirsi in pace col suo lato

oscuro, illudendosi che la responsabilità sia sempre e solo di altri.

Certo, non amo il banco degli imputati, ma da questa parte,

almeno, capisco cosa si prova a non essere compresi ed apprezzati

e ne faccio tesoro, perché me ne ricordi se la tentazione di

giudicare e condannare vorrà sedurre pure me. E, forse,

vedendomi dall’altra parte, mi osserverai meglio e capirai che non

ti sono nemico.

Perché non voglio vincere ad ogni costo ed essere il primo. Anche

perché i primi sono condannati a stare da soli sul gradino più alto

del podio e, alla fine, ad essere perfino odiati. Se partecipo a

quella gara che è la vita lo faccio per me, non contro di te. Lo

faccio per costruire il mio piccolo mondo, non per distruggere il

tuo o quello di altri. Per capire chi sono e non per negare chi sei.

Non sono il migliore, ma solo uno che vuole migliorarsi per

testimoniare, con la sua semplice presenza, che noi non siamo

solo i nostri difetti e, se ci riesco io, ce la possono fare tutti.

Non che voglia insegnare qualcosa a qualcuno. Non sono un

maestro, ma un eterno discepolo, che non si stanca di imparare

dai dubbi, dalle incomprensioni e dalle sconfitte. Non ho verità da

proclamare, posso offrirti solo il mio infaticabile ed incessante

pensare e ripensare, la mia ricerca continua di uno spazio e di un

tempo non solo per me, ma per tutti quelli che non si

accontentano del loro piccolo regno di certezze incrollabili e

sognano di andare sempre e comunque al di là di quelle colonne

d’Ercole che sono l’orgoglio e la convinzione di ognuno. Perché c’è

un mondo da scoprire e vivere e mi piacerebbe che lo facessimo

tutti.

Anche per questo, più che lodarmi o vantarmi di meriti e vittorie,

preferisco capire fin dove posso arrivare, perché non mi può

lasciare tranquillo la mia Austerlitz, se c’è una Waterloo ad

aspettarmi. Quello che di buono ho fatto non è un punto di arrivo,

ma quello da cui riparto per un nuovo inizio, un nuovo viaggio.

Come gli esploratori che, dopo aver scoperto un’isola, subito si

chiedono cosa si nasconde oltre l’orizzonte e già si preparano per

un altro itinerario, impazienti di vedere fin dove arrivano il cuore

e la mente, perché nessuna scoperta o conquista è capace di

appagarli e di far dimenticare loro il brivido che si prova quando

si attendono nuove albe. Per loro la vittoria non è vincere, ma il

continuare a gareggiare ed a scoprire.

Se, però, credi che, per questo, io sia avido di conquistare e

dominare, allora non ho reso l’idea. Io non ho mani che afferrano

e si chiudono fino a trasformarsi in un pugno, dove tutto e tutti

sono prigionieri della mia fame e sete di grandezza. Senza di te,

senza gli altri, non sono nessuno, non perché desideri sudditi per

regnare, ma per la ragione che ho bisogno di voi per capire,

imparare e ritrovarmi. Per essere me stesso. Una persona che non

si immagina senza di te, senza gli altri, e che, per questo, la mano

ve la tende non per impadronirsi di voi e della vostra vita, ma

perché, stringendo la vostra di mano, si crei un ponte che ci fa

sentire meno soli e timorosi.

Mi piace sognare, anche ad occhi aperti. Per questo, forse, ti

sembro strano, anche un po’ matto, perché non mi arrendo alla

logica spietata della concretezza, del tutto e subito, del qui ed ora.

Me lo hai pure detto che ho la testa tra le nuvole e gli occhi persi

nel vuoto, ma non l’ho presa male, come se fosse una critica. In

quel momento mi hai confermato quello che sono, uno che non si

rassegna a chiudere gli occhi di fronte alla realtà e ad accettare

che le cose debbano per forza andare in un certo modo, piuttosto

che in un altro. Un sognatore che gli occhi li ha sempre aperti,

perché da un momento all’altro può apparire quello squarcio di

luce che muta lo scenario e fa realizzare ciò che, fino a poco prima,

sembrava inimmaginabile.

Forse è proprio perché inseguo i sogni che non amo l’apparenza.

Che non è un sogno, ma un fantasma che si aggira tra i nostri

giorni, anche nei momenti più piccoli ed intimi, cercando di

convincerci ad essere quello che non siamo, ma che gli altri

vorrebbero che fossimo. Il sogno è un desiderio mio, l’apparenza

è il volere degli altri. Il sogno libera noi stessi, l’apparenza rende

tutti uguali, ma di un’uguaglianza piatta, smorta ed insapore.

Vestendoci di un abito grigio, identico, che unisce tutti nel destino

di essere tutto, tranne se stessi. Ed obbligandoci a sorridere e ad

essere felici anche quando non ne abbiamo voglia o motivo.

Perché l’esitazione, il dubbio e la perplessità sono parte di noi e

negarlo sarebbe come rinnegare noi stessi, illudendo il mondo che

tutto va bene e che quel piccolo Titanic che siamo non è mai in

pericolo.

Perdonami se non sono come vuoi tu. Se non ti regalo certezze e

verità, se non vinco ogni battaglia e se, spesso, mi accontento di

stare a guardare. Se non detto ultimatum o condizioni. Se non

amo i complimenti e le frasi fatte, gli slogan ottimistici e le illusioni

a poco prezzo. Se cerco di capire il problema e, non trovando

subito una soluzione, chiedo del tempo. Il tempo. Ho anche

pensato di essere nato in quello sbagliato, di essere fuori

contesto. Ma, poi, mi sono chiesto se esiste davvero un tempo

giusto o sbagliato. Il tempo è quello che viviamo noi e, se io vivo

proprio in questo di tempo, allora vuol dire che questo è anche il

mio tempo. Ed è anche mio se lo vivo per come sono davvero, se

il mio tempo ed il tuo tempo s’incontreranno senza scontrarsi.

Diventando il nostro tempo.

 

 

 

“Despite everything”, poesia di Laura De Vita (IIIF), vincitrice del 3° posto nella sezione poesia in inglese:

 

I look In my mirror

And it feels so empty.

My reflection is so far, like light-years away.

She’s hard to find, but i know she’s there.

She looks Like a doll

That’s been “loved” too much, desperately hopeful for another play.

Even if she’s Roughed up,

Even with all the stitches,

Even with all the scratches, Even with all the bruises, Even with all the regrets.

She stands there,

fighting tooth and nail,

waiting to come out.

But no matter what, I truly love that Doll

That poor Doll, who’s gone

through thick and thin.

That poor Doll, that has done wrong and has been wronged.

That poor Doll, that tried so hard to do right by herself.

That poor Doll, that gave everything

even when it led to nothing.

So,

I embrace that Doll, I embrace my self.

‘Cause even if

The Worst might be yet to come,

and even if

my Best might be behind me,

I find solace in the fact

That despite everything,

That’s me,

and I wouldn’t want it

any other way.

 

 

 

“Faciteme parlà”, poesia di Michela Amore (IF), menzione speciale nella sezione poesia:

 

E si ‘o dicess?

Chell che ‘o core me dice, che succedesse? m’ sbatte forte m’pietto, ‘o stommaco s’

astregne

E me dice “parla, che te n’ ‘mporta?”

Ma chi mo ddà o curaggio e parlà,

E guardà dind’all’uocchij da gente che tanto sape giudicà?

Vulesse fa chell’ ca me dice ‘o core

Ma nun riesco a da voce e pensieri mij.

A vocca però s’arape, vò cummannà

Allucca “mo basta! faciteme parlà!”

M’aggio stata troppo zitta e mo ‘a lascio fà, aggio fernuto d’ essere chell che fa piacere a’

gente

Aggia essere chell’ ca song je!

 

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