CUPHEAD: QUANDO IL VIDEOGIOCO INCONTRA L’ANIMAZIONE ANNI 30’
di Andrea Fusco (IIE)
Nel 2017 fa il suo esordio “Cuphead: Don’t Deal With the Devil” sul mercato videoludico, creando un certo clamore attorno a sé: il titolo è stato infatti unanimemente apprezzato da critica e pubblico. Non si può, in effetti, ignorare l’amore con cui Studio MDHR ha curato la propria opera. E quest’amore può saltare subito all’occhio dai primi secondi di gioco: l’intero prodotto è stato sviluppato seguendo, come esempio, lo stile d’animazione anni 30’ che tanto ha influenzato l’animazione occidentale.
Ma come mai una scelta tanto singolare, in un panorama videoludico che ormai è sempre più alla ricerca di una resa grafica iperrealistica? La risposta è in questo caso “motivi di cuore”. L’idea Cuphead nasce dalla fantasiosa mente dei fratelli Moldenhauer, principali sviluppatori del videogioco e fondatori di Studio MDHR. I due sono infatti cresciuti guardando i corti di Disney e dei fratelli Fleischer, i due maggiori esponenti dell’animazione cosiddetta “classica”. Ad evidenziare questo stretto legame tra i Moldenhauer e la propria opera vi è la meticolosità con cui è stato prodotto il videogioco: ogni frame visto a schermo è stato prima disegnato a mano su carta e poi digitalizzato.
Tratto caratteristico principale è, dunque, lo stile artistico su cui si basa Cuphead. Ma cos’è effettivamente questa fantomatica animazione anni 30’, o meglio, che ha di tanto speciale? Essa è anche detta “a tubo di gomma”: braccia e gambe dei personaggi si allungano e flettono contro ogni legge della fisica. Ciò serviva un tempo per velocizzare e semplificare il processo d’animazione, cosa necessaria visto che per solo pochi secondi di cartone erano necessarie diverse tavole. Altre caratteristiche fondamentali sono la rotondità delle forme e la semplicità del tratto, mai troppo articolato.
In quel periodo il cartone animato doveva principalmente divertire e intrattenere. Per questo motivo nei corti anni 30’ venne adottato un certo tipo di umorismo: lo slapstick, un genere comico nato col cinema muto e sviluppatosi nei primi del 900’ negli USA. Esso si basa sul linguaggio del corpo e dà vita a gag fisiche semplici ma efficaci: ciò da cui scaturisce la risata è la violenza e il dolore (tipica è la scena in cui un personaggio scivola su una buccia di banana). Questo humor si fonde perfettamente, come si può intuire, allo stile a tubo di gomma, inscenando situazioni surreali e a favore del riso del pubblico.
Detto ciò, cosa ritroviamo di tutto questo in Cuphead? A colpo d’occhio ognuno potrà notare le forme tondeggianti e il continuo gioco effettuato coi corpi dei personaggi. Ma questo è solo la superficie dell’immenso mare di citazioni e ispirazione artistica di cui vive l’opera. Ad esempio, lo stesso Cuphead, protagonista del videogioco, veste un pantaloncino rosso e dei guanti bianchi che ai più ricorderanno Mickey Mouse, emblema dell’animazione anni 30’, nonché personaggio iconico della pop culture. E non è finita qui: Molti dei boss del videogioco sono stati creati partendo soprattutto dai corti animati e dai personaggi di Disney e dei Fleischer.
Basterebbe dunque la componente artistica dell’opera, un eccellente tributo ai primi passi dell’animazione occidentale, per tessere le lodi di Studio MDHR. Invece, bisogna soffermarsi anche sulla scelta del genere: Cuphead è un videogioco “Run n’Gun”. Come spiega il nome stesso, l’intero gameplay si basa sul “correre e sparare”. Questo genere, molto in voga negli anni 80’-90’, è andato pian piano scomparendo nell’industria videoludica, a favore di generi ben più “realistici”: infatti esso è tradizionalmente accompagnato da scelte di design poco vicine al fotorealismo, come la pixel art. Proprio per questo, in un contesto che chiede e produce sempre più prodotti che assottiglino la soglia tra reale e digitale, il Run n’Gun trova ad oggi pochissimo spazio tra le opere di spessore. Studio MDHR, ripotando in vita un genere dimenticato dai più e offrendo un gameplay avvincente e ben studiato, non ha potuto che essere acclamato dalla critica, oltre che apprezzato dal pubblico.
Infine, non si può tralasciare l’importanza della colonna sonora, che condisce deliziosamente l’intera opera: il compositore Kristofer Maddigan strizza più volte l’occhio al mondo che ha partorito quello stile d’animazione. Gli anni 30’, dei quali è esaltato il panorama jazz, basato su strumenti come la tromba, il sassofono e il clarinetto, sono così riportati in vita da Maddigan. Così Studio MDHR ha offerto un’opera d’alto livello, che diverte e incuriosisce per i diversi rimandi a quel mondo di cui il videogioco mutua lo spirito: il surrealismo e la vivacità dell’animazione classica occidentale.
Da ossessionato di indie, quest’articolo su uno dei videogiochi che preferisco mi ha fatto molto piacere, per di più è ben curato e preciso. Really nice