Geborgenheit
di filo-sofia
Geborgenheit – parola d’amore tedesca, indica: “la sensazione di sicurezza che si prova quando si trascorre del tempo insieme a chi si vuole bene”.
Appoggio la testa sulla sua spalla.
Socchiudo gli occhi, mi concentro ad ascoltare più il silenzioso rumore che facciamo noi due insieme piuttosto che il rumoroso silenzio del treno che si muove sotto i nostri piedi.
Lui è disinvolto, rilassato. Non riesco a decifrare la sua espressione, in questo momento. La verità però è che non ci riesco mai. È inspiegabilmente intrigante. Provo a capirlo, faccio finta di riuscire nel mio intento, ma in fondo desidero sapere una sola cosa: cosa passa per la testa di quest’uomo? Non ho idea di cosa stia pensando. Mi faccio più vicina a lui, per un momento mi pare di sentire il suo battito accelerare. O forse no.
Sospira, ma non dice niente. Anch’io resto muta. Non ho voglia di parlare, rovinerei il momento; sono troppo assonnata per aprire la bocca e troppo sveglia per addormentarmi. Non conto le fermate che passano, non mi interessano più. Forse la mia fermata è già passata da un pezzo, forse abbiamo fatto lo stesso giro più volte, o forse sono solo io che mi faccio trasportare e, in realtà, la fermata alla quale devo scendere deve ancora arrivare. Mi rendo conto di odiare la parola forse. Non mi piace. Neanche la parola solo, perché è come se velasse in una frase un nascosto significato di permesso, di limite. E io odio i limiti, li odio così tanto; eppure queste due parole mi si addicono entrambe, perché sono sicura – ah, che ironia – di essere la persona con più dubbi e indecisioni a questo mondo. Mi rendo anche conto che non so nulla. Non so lui cos’è per me, eppure sento di dover rimanere su questo stupido sedile di uno stupido treno ancora per molto, sento che se scendo alla prossima fermata mi viene la paura di non riuscire mai più a provare quello che sto provando adesso. Sento, in fondo, di sapere cosa lui è diventato per me. E soprattutto, cosa vorrei io fossi per lui. Mi chiedo che fine abbia fatto la bambina che affermava di detestare i ragazzi, la bambina il cui unico desiderio era quello di viaggiare per il mondo e diventare una donna di successo. Quella bambina c’è ancora. È nascosta in una parte di me, ne sono sicura; in un piccolo angolo della mia anima, o della mia testa, in una minuscola stanza che separa sentimento e intelletto, ragione e amore. Quella bambina c’è ancora, sì, tant’è che voglio ancora viaggiare per il mondo, voglio ancora diventare una donna di successo. Ma non voglio farlo se non c’è lui a vedermi. Non voglio viaggiare se non posso prendere due biglietti. Non voglio avere successo se non posso lamentarmene con qualcuno. Non voglio coronare il mio sogno se una parte di me è scomparsa – perché è inutile girarci attorno, ormai lui è una parte di me. Lo è sempre stata, probabilmente, e io l’ho capito dalla prima volta che l’ho visto, che saremmo andati a finire così. Voglio litigare per l’ultimo pezzo di pizza, voglio litigare e ricominciare da capo. Voglio lavorarci sopra, su questo amore, nonostante so che sarà difficilissimo e che entrambi ci faremo molto male, insieme, e anche più di una volta. Ma voglio farlo, voglio farlo perché voglio lui. Voglio tutto di lui, voglio essere il suo passato, presente e futuro. E voglio anche che lui lo sia per me.
Mi ridesto dai pensieri quando noto di essermi quasi addormentata. Il suo braccio ora mi circonda le spalle, siamo un’unica cosa, due corpi con una sola anima. La mia bocca continua ad essere sigillata, perché sa che questo non è il momento di aprirsi. È romantico, questo silenzio, e vorrei durasse per sempre.
Eppure, stiamo solo aspettando la fermata giusta per scendere dal treno. E mi convinco che, forse, la fermata giusta siamo noi.