La vecchietta compie settant’anni
di Ciro Savarese IIIH
Talvolta ci capita di trovare sulla nostra strada persone che non dimostrano affatto l’età che hanno: anziani che sembrano avere la forza e l’energia di diciottenni e diciottenni che invece sono vecchi dentro, per adoperare un’espressione che uso spesso, anziani prestati alla gioventù e giovani prestati alla vecchiaia. Stessa cosa vale per le istituzioni e per le leggi: alcune antiche sembrano attualissime e altre moderne possono risultare antiquate. In questo articolo parleremo della madre delle leggi, la Costituzione, che forse proprio per questo status di madre si è portata male gli anni da quando aveva un giorno, come diceva il maestro Indro Montanelli. E la nostra vecchietta, ch
e quest’anno compie settant’anni, ha subito vari tentativi di lifting nel corso del tempo (ultimo quello fallito il 4 dicembre scorso), che tuttavia non ne hanno ringiovanito né l’aspetto né la pasta della quale è fatta. Mi piacerebbe dunque andare all’origine della sostanza della nostra costituzione, non da un punto di vista giuridico – non ne avrei infatti la competenza – ma piuttosto da un punto di vista storico, approfondendo il contesto entro cui ha mosso i primi passi per capirne pregi e difetti.
Torniamo indietro al 2 giugno 1946, data che ricordiamo per il referendum
monarchia – repubblica. In quella sede si votò infatti anche per l’assemblea costituente, che aveva il compito di stabilire il nuovo assetto dello Stato. Partendo dai risultati di queste elezioni possiamo fare una panoramica dei partiti che hanno generato la costituzione.
Come possiamo vedere, lo schieramento predominante è la Democrazia Cristiana, anche grazie alla intelligente mossa di De Gasperi di non lasciare la battaglia repubblicana al fronte popolare. L’altro aspetto che consentì alla DC di raggiungere la maggioranza fu la preoccupazione dei moderati di far collocare l’Italia nell’ambito occidentale e non nella sfera di influenza sovietica (in tal caso l’Italia sarebbe potuta diventare uno stato del blocco sovietico, timore per il quale fu istituita successivamente l’organizzazione Gladio). Anche se la sinistra, facendo la somma tra i risultati del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e del Partito Comunista Italiano, raggiungeva 219 seggi (dodici in più della Dc), comunque il risultato era stato deludente, specialmente se si considera il Partito comunista, che da formazione egemone della resistenza diventò la seconda della sinistra con un divario non indifferente rispetto ai socialisti. Questi partiti sono sicuramente i principali artefici della costituzione. Tuttavia da ricordare vi è ancora l’Unione democratica nazionale, formata dal Partito Liberale Italiano e dal Partito Democratico del Lavoro, ma in particolar modo il Fronte dell’uomo qualunque, fondato da Guglielmo Giannini e nato dall’eredità del giornale “L’uomo qualunque”. Questo movimento, che fu un movimento essenzialmente di protesta, Giannini cerco di porlo sotto la direzione di Nitti, il quale rifiutò, sapendo che “un partito senza radici nella storia né ancoraggio ideologico, basato soltanto sulla protesta, non poteva avere un domani.”[1]. Così composta, dunque, l’assemblea costituente si trovò ad affrontare due problemi iniziali: l’elezione del presidente della Costituente stessa e l’elezione del Capo provvisorio dello Stato. Per quanto riguarda la prima, De Gasperi e Nenni si erano messi d’accordo sulla figura di un Socialista e si pensò al nome dello stesso Nenni, il quale per non rimanere fuori dai giochi politici (costretto come sarebbe stato ad un ruolo super partes), declinò la proposta. Proposta che invece accettò Giuseppe Saragat, il suo nemico di partito. A tal proposito Nenni scrive nei suoi taccuini: “La questione della Presidenza dell’assemblea costituente si è conclusa questa sera con un inaspettato colpo di scena. Il mio rifiuto non è servito a Romita, ma a Saragat. E questo non per una manovra di Saragat, ma per un eccesso di furberia da parte dei miei amici. Questi si erano messi in testa che De Gasperi da un lato e Saragat dall’altro mi spingessero alla presidenza per immobilizzarmi in una cornice dorata. E hanno fatto il ragionamento infantile del rovesciamento del gioco. Non hanno pensato che il prestigio personale di Saragat uscirà rafforzato dalle sue nuove funzioni. Infatti egli che era perplesso dopo l’erezione mi ha telefonato più tardi che capiva la manovra, ma mi prendeva l’utile, sicuro di sventarne l’insidia”. Questione ben più complessa fu quella dell’elezione del capo provvisorio dello Stato; l’identikit che si andava cercando era quello di un uomo preferibilmente meridionale e che non fosse lontanissimo dal contesto monarchico. La prima figura individuata in tal senso fu quella del filosofo napoletano Benedetto Croce, la cui candidatura fu caldeggiata dai socialisti per la sua intransigente laicità (elemento che non accontentava per niente democristiani, i quali sollevarono la problematica del ruolo attivo di Croce nel Partito Liberale Italiano). Dopo la rinuncia di Croce, si deviò su Enrico de Nicola, insigne giurista napoletano che era stato consigliere della Corona e parlamentare per molti anni prima dell’avvento del Fascismo; probabilmente per una carica eccezionale come quella della presidenza provvisoria della Repubblica, ci voleva una personalità altrettanto eccezionale. De Nicola infatti aveva un carattere del tutto peculiare e, in questo senso, Indro Montanelli ne dipinge una immagine molto veritiera quando dice che De Nicola amava che gli offrissero qualcosa per il piacere di declinarla. Altra frase che ci può dare un’idea abbastanza precisa del personaggio è di Mario Lupinacci, il quale dalle colonne del Giornale d’Italia ebbe a scrivere: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare.” In questo contesto, dunque, nacque la Costituzione italiana, che neonata vide anche molti critici. Tra questi Calamandrei, il quale riteneva che le varie commissioni nelle quali l’assemblea fu suddivisa lavorarono separatamente, creando dei pezzi in sé per sé magari anche eccellenti, ma le cui giunture non era sicuro fossero compatibili con gli altri pezzi. Indro Montanelli, facendo eco a Spadolini, a tal proposito affermava che un altro grave handicap della Costituzione Italiana fu il partire da una prospettiva completamente diversa rispetto a quella tedesca. Se infatti in Germania si riteneva che il nazismo fosse nato dalla instabilità politica della Repubblica di Weimar e che quindi fosse necessario rafforzare il potere esecutivo proprio per evitare l’instabilità, d’altro canto i costituzionalisti italiani erano partiti dal presupposto di limitare il potere esecutivo proprio per evitare derive di autoritarismo. Tuttavia, come riconosceva lo stesso Montanelli, la costituzione italiana fu nella sua genesi l’espressione di quello che erano gli italiani e in questo senso, forse, i suoi pregi e difetti sono frutto dei nostri. E quindi proprio per questo facciamo di tutto cuore i migliori auguri alla nostra vecchietta, tenendo a mente le parole di Piero Calamandrei: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.”
[1] Indro Montanelli, “L’Italia della Repubblica”, 1985 Rizzoli Editore, Milano nell’ edizione speciale “Storia d’Italia” per il Corriere della Sera, 2000 RCS Libri S.p.A, Milano, p.328.