Leopardi, il “giovane favoloso”
di Francesca Tierno (IIIF)
Tra i poeti più di spicco del Romanticismo ottocentesco figura sicuramente Giacomo Leopardi. Molti sono stati i commenti a suo scapito, sin quand’era in vita: “troppo malinconico”, “troppo negativo”. Molte sono state anche le banalizzazioni: tra le tante, quella che vuole vedere una connessione tra il suo pensiero pessimista e la sua precaria condizione di salute. Al giorno d’oggi, sappiamo benissimo che tesi del genere non hanno un grande valore. Leopardi era e continua ad essere molto, molto di più. L’emozione nel leggere le sue poesie rimane immensa. Ancora più emozionante è ritrovare, nella libreria di famiglia, un’edizione Starita, risalente al 1835, dei Canti e delle Operette Morali con annotazioni e correzioni del poeta stesso. Naturalmente, l’originale è custodito alla Biblioteca Nazionale, mentre quella ritrovata è una riproduzione in fac-simile, precisamente la copia n. 655. Il fatto che sia una copia potrebbe, all’apparenza, far perdere valore all’edizione, ma così non è. Infatti, oltre al mero valore di mercato, ciò che va davvero tenuto in considerazione è il valore storico, culturale nonché morale dell’opera. Vedere con i propri occhi le annotazioni del Leopardi, osservare il suo lavoro minuzioso e studiarlo con la lente d’ingrandimento, è stato di grande ispirazione.
In quest’edizione, è inclusa anche una versione de “La Ginestra” scritta interamente a mano dal poeta. Quel che mi ha colpito è l’iscrizione posta sotto il titolo. È un passo dal Vangelo secondo Giovanni (3, 19), che così recita: “[…] καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς […]”. La traduzione è, a grandi linee, la seguente: “[…] ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce […]”, che fa davvero capire molto del pensiero leopardiano. Leopardi, ateo, “rovescia” la citazione del Vangelo e ci gioca. Le tenebre, indicano tutte le illusioni e le false speranze che gli esseri umani cercano di creare attorno a sé pur di non accettare la luce, cioè la condizione di infelicità perpetua a cui l’uomo è condannato a causa della natura. Siamo nel pieno del pessimismo cosmico. Questo pessimismo è però arricchito, e non è affatto rassegnato: Leopardi, infatti, ipotizza una società solidale e fraterna in cui gli uomini prendono coscienza del loro destino e si uniscono contro l’unico vero nemico, la Natura.
Parlando della poesia in sé, è meraviglioso, in un certo senso, pensare che Leopardi scriveva della città in cui noi viviamo, e che ne coglieva ogni sua piccola sfumatura, pur trovandosi sicuramente in una realtà differente, almeno in parte. La ginestra diventa simbolo della forza e del coraggio nel riuscire ad accettare la propria condizione ed il proprio destino, che nel caso del fiore è quello di soccombere alla lava del Vesuvio. Questa, dice Leopardi, è la differenza con l’uomo. L’uomo è incapace di prendere consapevolezza della sua infelicità e della crudeltà della natura, e cerca inutilmente distrazioni, svaghi, illusioni. È cieco, o finge di esserlo, di fronte alla triste verità. Il fiore invece, bello com’è, silenziosamente, comprende la propria mortalità. Non si oppone, non protesta. Così come il canto si apre con la descrizione della ginestra, così si conclude, attraverso la tecnica della circolarità. Con umiltà e dignità, accetta il suo fato di sofferenza e morte.
Un’ultima riflessione va al Dialogo della Natura e di un Islandese. Un Islandese si era impegnato, per tutta la vita, a fuggire alla Natura, che lo aveva costretto a vivere in condizioni ostili per tutta la vita. Ovunque l’Islandese vada, trova condizioni climatiche difficili, soffre di malattie e vari problemi. Giunto finalmente in una zona interna dell’Africa, incontra una donna gigantesca, con un volto “bello e terribile”, che si rivela essere la Natura stessa. Leopardi chiarisce le vere intenzioni della Natura: ella stessa dice che, quando agisce, non ha a mente il destino degli uomini, non ha a mente le conseguenze che le sue azioni possano avere su di loro. La Natura ha a mente unicamente la vita dell’Universo, che deve necessariamente essere fatta da produzione e distruzione e che riflette meccanicismo e il materialismo, ideali tipici dell’Illuminismo.
Allora, si chiede l’Islandese, a cosa serve una vita creata a scapito di chi la compone? Chissà. Ancora oggi, darsi una risposta concreta ed esatta è difficile, se non impossibile. Ciò che è sicuramente vero però, è che la Natura esiste per sé e per il suo stesso bene, e non è fatta a misura degli uomini, che la stanno invece “invadendo” e rovinando. Il dialogo si conclude ironicamente, perché l’Islandese muore, anche se non si chiarisce esattamente perché. Potrebbe essere diventato il pasto per due leoni (dunque è diventato fonte di sostentamento per altri) o potrebbe essere stato sepolto dalla sabbia, divenendo una mummia, tanto “amata” dagli archeologi e riposta in un museo qualsiasi d’Europa.
Concludendo, è importante riconoscere, oltre alla sua bellezza, quanti spunti di riflessione filosofica, etica e morale ci offra, ancora adesso, la poesia di Leopardi, che talvolta, viene sottovalutata e disprezzata, ritenuta troppo spesso noiosa. Basterebbe osservarla con occhio più curioso e aperto, più disinteressato e meno scolastico, e si scoprirebbe un mare di piacevolissime sorprese. Si consiglia, per approfondire sulla vita del poeta, la visione del film del 2014 “Il giovane favoloso”, di Mario Martone, in cui uno straordinario Elio Germano interpreta, come lo chiamava Pietro Giordani, “Giacomino”.