E se la felicità fosse un fiore?

di Linda Paesano (IIIG, a.s. 2020/2021)

Il Leopardi elaborò una propria concezione di piacere e di felicità, riassunti in una teoria, la cosiddetta “teoria del piacere”, secondo la quale l’uomo vorrebbe un piacere infinito inesistente in natura e impossibile per via di quello finito che è il solo che avrebbe a disposizione, generando un’infelicità alla quale potrebbe illusoriamente scampare con l’immaginazione o il ricordo di un piacere passato. Tale concezione trova fondamento sulla corrente filosofica del materialismo e del sensismo, secondo i quali i sensi costituiscono i principali strumenti della conoscenza e la felicità è vista come il piacere sensibile, materiale e legato alla pienezza vitale, in relazione alla consapevole caducità delle cose del mondo e alla loro effimera esistenza nel nostro ordinario. Il Leopardi, inoltre, riteneva l’antico superiore al moderno, la consapevolezza di un bambino superiore a quella adulta. Ciò, perché gli occhi dei bambini guardano al mondo da una prospettiva diversa, affidano alle cose del mondo da cui sono circondati un valore diverso per ogni volta che esse vengono guardate, senza soffermarvisi troppo, come ad assicurarsi di restare delicati, di non imprimere forma alcuna, camminare in punta di piedi, in silenzio come un gatto, come solo i bambini sono capaci di fare. I bambini hanno un potere che gli adulti hanno ormai perso, l’immaginazione, l’unica cosa che permette all’uomo di trovare un rifugio, sebbene illusorio, sebbene effimero, sebbene ingannevole dalla vita vera, quella capace di far del male con le spine della realtà. Eppure è proprio questo dolore a renderci vivi, a renderci consapevoli del nostro stesso star vivendo, qui ed ora. Colpiti dal dolore, vorremmo ritirarci, metterci al riparo, ma allo stesso tempo ci sentiamo così vivi che inconsciamente siamo portati a volerne ancora e ancora. Come una candida mano delicata e dalla pelle perfetta e senza segno alcuno ad averla mai lontanamente scalfita, che afferra una rosa cogliendola direttamente dal vivaio. Le spine la trafiggeranno, la feriranno, le faranno del male, eppure la presa si stringe ancor di più su quello stelo coperto di minuscoli rovi, perché in fondo, si è mai vista una rosa senza spine? Non sarebbe naturale. Esattamente allo stesso modo, l’uomo senza i propri piccoli dolori e le proprie avversità non sarebbe naturale, non sarebbe umano, la sua vita non sarebbe una vita o quantomeno degna di essere definita tale. Persino i bambini hanno bisogno di confrontarsi con tali aspetti ostili della vita, come il cadere mentre imparano ad andare in bici per conto proprio, oppure non saranno mai capaci di muovere un freno per paura. Paura di vivere. Paura di andare avanti da soli. Eppure è proprio così che si concepisce di essere cresciuti, quando si diventa capaci di tirare una linea tra il passato ed il presente, ma non una linea di taglio. Una linea disegnata come con un gessetto sull’asfalto. A volte, nei momenti di tremenda e insopportabile inquietudine, mi fermo, chiudo gli occhi per qualche istante e prendo un profondo respiro. Cosa avrebbe fatto la me spensierata, la me bambina, in questi casi? Si sarebbe soffermata così tanto, come me? Ci avrebbe rimuginato così tanto? Da bambina, mi bastava un euro per sentirmi al settimo cielo. C’erano un’infinità di cose buone da poter comprare, con solo un euro, tra cui un gelato, il mio preferito. Non esistevano altri gusti, sebbene fossi a conoscenza del fatto che ne esistessero effettivamente altri, che sul momento sapevo potessero rendermi felice come il sapore che quel preciso gelato sapeva darmi. Ho capito di essere cresciuta, quando la felicità è diventata mettere da parte ogni singola moneta, consapevole che avrei potuto comprare più di un semplice gelato, qualcosa di più grande. Da piccola sognavo di poter comprare la Luna, per avere uno spazio tutto per me. Sognare. Spesso dimentico i sogni che faccio. Ma i pensieri, quelli non li dimentico mai. Il Leopardi sosteneva che l’infelicità umana fosse scatenata dalla presa di coscienza, da parte dell’uomo, di quanto fosse diverso l’essere dal voler essere. Ciò che mi ha portata a credere fermamente nel detto della felicità nelle piccole cose, è che la vita attraversa una certa monotonia, il cui peso diventa schiacciante, tale da dover celermente trovare una qualsiasi cosa utile al solo scopo di ripararsi dall’ombra. Ci si ripara dal Sole, non dall’ombra, direbbero i bambini, e quanto mi piacerebbe poter dire lo stesso. Quanto mi piacerebbe poter tornare bambina, eppure mi blocca l’adulto istinto e la paura di ulteriore fatica, la più spaventosa, quella di dover ricominciare tutto da capo. I bambini che si buttano giù le torri tra di loro, per poi ricostruirle insieme, ricominciando il loro gioco, ancora e ancora. Quella solidarietà che non sa esattamente di quel sapore, non si chiama esattamente con quel nome, eppure di cui i bambini sono inconsciamente i maestri assoluti. Quell’umana solidarietà che il Leopardi elogiava e al contempo incoraggiava con la pubblicazione della Ginestra e la stessa che ha rappresentato, in epoca moderna, l’artista americano Keith Haring, nella propria opera “Tuttomondo”, situata a Pisa, dipinta sulla facciata della Chiesa di Sant’Antonio Abate. Rappresenta l’umanità che convive con sé stessa, in trenta figure varie che si intrecciano e si intersecano, si incastrano, ma senza scontrarsi mai. Incoraggiava ad aggrapparsi ad una speranza comune, ma allo stesso tempo raggiungibile da tutti, umanamente. Se mi fermo a pensare a cosa corrisponda per me, la felicità, a cosa associ il piacere, mi sovvengono piccoli diletti come la musica, la lettura, la televisione, forse certe persone, le poche che sono riuscite a ritagliarsi un proprio piccolo angolo di cielo nel mio cuore. Mi torna alla mente un fondamento della filosofia epicurea, il Quadrifarmaco di Epicuro, con il quale il filosofo avrebbe cercato, con brevi frasi semplici ma dirette, di porre fine alle quattro maggiori paure umane: quella del divino, del dolore, dell’assenza di piacere e della morte. Solo quando l’uomo avesse smesso di convogliare tutta la propria preoccupazione all’interno di essi, avrebbe raggiunto la felicità data dall’assenza di timore nei confronti della vita. Non ancora adulta, ma sull’inevitabile e buona strada per diventarlo, penso che al mondo non ci sia nulla di più cangiante e mutevole della felicità stessa e trovo che sia, in fondo, incoraggiante che non sia facile da trovare, ad una certa età. Se così non fosse, le piccole cose perderebbero di importanza e l’umanità potrebbe smettere di trarne giovamento. Eppure, se l’uomo si perdesse nella ricerca di sé stesso, prima ancora della tanto umanamente agognata felicità assoluta, scoprirebbe che è proprio lui, quella piccola cosa. Un insieme di tante piccole cose, dentro di lui, che se curasse sino alla completa fioritura, avrebbero la forza di crescere in alti e robusti girasoli e piccole, tenere, bellissime ma fragili Belle di notte. 

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