uccel-lino-in-gab-bia
eh, e com’è nata questa poesia? eh, onestamente non lo so nemmeno io. vabbè, in realtà
sabato scorso ero, come ogni mattina ad eccezione della domenica, alla stazione,
aspettando il treno che mi avrebbe portato a scuola. ero seduta comodamente sul gradino
del marciapiede con i piedi poggiati sui binari – quelli interni, dove viene spostato il treno in
caso di guasti, quindi è una sezione pressoché inutilizzata, totalmente sicura – quando
scorgo un tizio che stava pulendo la gabbia di un uccellino: la gabbia era minuscola, piccola
quando un cesto per il pane e dentro vi era quello che mi sembrava essere un passerottino,
o comunque un uccellino dal piumaggio marroncino tipico del paesaggio di campagna.
subito ho provato una pena assurda per il piccolo pennuto, al punto tale che il mio cervellino
si è dipanato dalla complicata realtà per poi tuttavia contorcersi in ragionamenti ancora più
storti e ingarbugliati sulla condizione dell’essere umano, sulla mia condizione di essere
umano, sul mio essere umana e sulla mia condizione. e il signor sigarotto – chesterfield,
gusto limone – che di tanto in tanto portavo alle labbra mi instradava ad altri cogitamenta, e
le signore volute così sinuose mi tentavano, incitandomi ad abbandonarmi alla follia delle
mie riflessioni. poi è arrivato il treno, ho gettato il mozzicone e mi sono appesa al tram.
“oh, piccolo uccellino,
come ti trovi in quella gabbia
più piccola del mondo?
più piccola dei pianeti e del sole
e della galassia e dell’universo.
perché ti trovi in quella gabbia,
la più piccola del mondo?
la più piccola della via lattea
e del sistema solare e di tutti i sogni tuoi.
tu sogni, uccellino?
sogni di poter volare nel cielo?
o hai paura dell’illimite?
sai, uccellino, anche io sono in gabbia.
ma rispetto a te posso scegliere.
potrei fare un saltello
un saltello
un saltello in avanti
e dopo sarei libera.
eppure sono io a scegliere
di restare qui, nella mia piccola gabbia
nella mia piccola gabbia mentale
troppo piccola per i miei sogni
e per le mie ambizioni
e anche per l’astronauta che c’è in me.
sai, uccellino?
ogni essere umano
è una galassia a sé stante
ma è una galassia in prigione.
e che reato ha commesso?
ha deciso di non scegliere.
se tu potessi leggere i miei occhi
e quelli delle altre persone
probabilmente
defecheresti
sulla spalla di ognuno di noi
e ti accorgeresti
di come nessuno si pulirebbe.
accade giornalmente, d’altronde.
tutti ci macchiamo
e non ci laviamo mai.
e anche l’universo lo sa
che nessuno può ribellarsi
a dei falchi che depredano la nostra carne.
e perché ci facciamo mangiare dai falchi?
perché nelle grotte ci sono gli orsi
e sotto le foglie di un platano
o i rami di un baobab
abbiamo paura dei serpenti.
vedi, uccellino,
anche quando scrivo
sulle note del mio telefono
ho bisogno di una pagina a righe
perché lo sfondo vuoto mi guarda dentro
e mi cofondo
e mi perdo tra le mille parole
che come stelle bruciano nel cervello
e che come meteore
distruggono il mio cervello.
non so come continui questa poesia
in versi sciolti e senza rime
(ad eccezione di quelle fortuite)
ma so che un giorno
scapperò da questa realtà
e mi renderò conto, redenta,
delle cose che non ho mai fatto
e che avrei potuto fare.
già mi flagello abbastanza
con i sensi di colpa
ma la piena consapevolezza
è un saltello
un saltello
un saltello più in là
e per ora rimango nella mia gabbia
proprio come te, uccellino,
in attesa di librarmi in un cielo rosa
macchiato di viola cobalto e consumato
dalle sfumature arancioni
di un tramonto che si fa alba.
un’alba perenne.
un’alba infinita.
quello sarà il giorno della mia rinascita.
vorrei liberarti, uccellino,
ma ho perso di vista la tua gabbia.”
Toccante e autentico, molti di noi viviamo questa esperienza che ci paralizza nella nostra intima sofferenza, ma tante volte il chiavistello d’apertura della gabbia è posto dal lato interno. Sta a noi aprirlo ed uscirne!