Ukiyo
di filo-sofia
Ukiyo – parola giapponese. Letteralmente, vivere in un “mondo fluttuante”, vivere il momento al massimo.
Una settimana fa ho scoperto che oggi sarei morto. Nel momento in cui l’ho saputo, dal mio medico, non avrei mai pensato che sarei riuscito a mantenere una tale calma da non urlare così forte da farmi buttare fuori dall’ospedale. E invece l’ho fatto; la mia calma inaspettata mi ha portato a pensare a cose banali e completamente futili, come il concerto che ci sarebbe stato da lì a un mese, o i chili di pasta comprati al supermercato il giorno prima, ormai inevitabilmente inutili.
Il senso di impotenza nel saperlo è sopraggiunto solo il giorno dopo, quando ho veramente realizzato la situazione in cui mi trovavo. Sapere quando morirai è una cosa totalmente innaturale: persino quando raggiungi l’età di novant’anni e inizi più o meno a farti un’idea di quando potrebbe arrivare il momento, non sai precisamente in quale giorno accadrà. Oltretutto, quando hai novant’anni, la tua vita l’hai già vissuta a pieno; sei pronto a lasciare questo mondo. A volte ti ritrovi persino a sperare che accada al più presto, perché ti sei abbastanza stancato di dove hai vissuto in tutti questi anni. A novant’anni hai amato, odiato, pianto, riso, ti sei fatto male, sei guarito, sei caduto, ti sei rialzato. Io no. Io no, e non riuscivo a concepire l’idea che il mio destino fosse già segnato, che sarei dovuto morire da un momento all’altro. Poi mi sono svegliato la mattina dopo e quella dopo ancora, e quella dopo ancora. E il senso di impotenza s’è trasformato in rabbia per me stesso; rabbia, perché persino dopo aver saputo che mi rimaneva una settimana stentata per vivere, continuavo ad ostentare le mie abilità da procrastinatore seriale e a rifugiarmi nella negazione – che spesso, da lontano, pare così confortante che ci sembra la cosa più giusta da fare, negare e negare e negare.
Non ci avevo mai pensato alla morte, prima d’ora. Non mi sono mai chiesto come dev’essere morire, almeno non prima di sapere che sarei morto da un giorno all’altro. E poi ho provato a immaginarlo. Probabilmente, è come in un incubo che feci qualche anno fa. Nell’incubo, c’era sangue ovunque e mi ci perdevo dentro. Respiravo sangue, non aria; ma quando provavo a muovermi, ad alzare il braccio, a scuotere la testa, non ci riuscivo. Per un attimo mi parve anche di essere riuscito a correre, invece ero sempre fermo allo stesso punto. O forse, non si tratta di questo. Forse, l’esperienza della morte assomiglia più a quando da bambino ti addormentavi sul divano e ti risvegliavi nel letto. Forse, quando moriamo, siamo semplicemente in pace. Ci dimentichiamo del tempo, della vita, di tutte quelle angoscianti e ripetitive preoccupazioni che ogni giorno ci riaffiorano in mente. Forse, è come stendersi sul letto dopo una lunga e intensa giornata e sentire tutta la spina dorsale che si rilassa dalla tensione accumulata; forse, è tirare un sospiro di sollievo dopo aver sventato un brutto voto, forse è buttarsi a mare in una giornata caldissima. Insomma, qualunque cosa la morte sia, lo scoprirò molto presto.
Oggi dovrei – devo morire. Suona strano nella mia mente, lo è ancora di più detto ad alta voce. Oggi devo morire, ho fatto il conto alla rovescia e, alla fine, il giorno è arrivato veramente. Oggi devo morire, e poiché questo sarà l’ultimo giorno che vivo su questa terra, su questo suolo, dentro questo corpo e questi vestiti, voglio farlo al meglio. Esco da casa mia e inalo tutta l’aria che posso inalare, chiudo gli occhi mentre sento un piacevole e lieve bruciore nei miei polmoni mentre l’aria ci entra dentro. È incredibile come vedi tutto più bello quando sai che stai per morire. I panni stesi fuori al balcone assumono improvvisamente un’aria romantica e non sai nemmeno perché; la scia di petrolio lasciata delle navi in mare assomiglia molto di più a poesia che inquinamento; l’odore di legno usurato nelle chiese ti invade piacevolmente le narici al posto di darti fastidio e il rumore degli infradito che sbattono per terra si trasforma in musica, e non nel solito insopportabile struscio. Nel mio cuore, un impero di cadaveri che cresce e cresce ancora, che provo ad ignorare, a mandare giù come un boccone difficile da ingoiare. Per un giorno, voglio essere innamorato della vita che sto vivendo – o meglio, che ho vissuto, ché ormai il mio tempo è scaduto. Voglio avere tutta l’energia che mi serve per questa giornata, sentire quella piccola vena d’adrenalina di quando sei sulle montagne russe o quando corri.
Oggi devo morire, e quando accadrà, dal mio corpo decadente devono crescere fiori. Fiori, e io ci sono già dentro; sento l’odore del polline nelle narici. Fiori eterni. Io non lo so, cosa c’è dopo la morte, e in questi giorni, sono arrivato alla conclusione che non mi interessa nemmeno saperlo. Mi stupisco di me stesso, non mi è chiaro come possa accettare di morire così giovane, pur sapendolo, pur essendo preparato, pur essendo a conoscenza del fatto che non posso davvero oppormi a cosa ha il destino in serbo per me. E forse, è proprio per questo che ho mantenuto quell’estrema calma dal giorno in cui, in quella sala medica, mi è stato detto che sarei morto da lì a una settimana. E questa settimana l’ho vissuta a modo mio, così come ho vissuto il resto della mia vita; ed è stato difficile comprendere come mai l’essere umano capisca il valore di cosa possiede solo quando sta per perderlo, o quando l’ha perso già.
Oggi devo morire, e sono inquietantemente pronto a farlo. Aspetto silenziosamente che la catastrofe della mia morte diventi bella, meravigliosa, e interessante, e moderna. Probabilmente, lo è già.