Enrico Berlinguer: un timido che ha segnato un’epoca

L’anno scorso, nell’ultimo numero di Pausa Caffè, ci siamo lasciati parlando della vicenda politica e umana di Aldo Moro. Con questo articolo ci colleghiamo idealmente con un protagonista di quella stessa vicenda; c’è una canzone di Antonello Venditti che è dedicata a questa persona, in cui il cantautore Romano dice: “Enrico se tu ci fossi ancora, ci basterebbe un sorriso per un abbraccio di un’ora. (…) Chiudo gli occhi e penso a te, dolce Enrico nel mio cuore accanto a me, tu sei vivo. Chiudo gli occhi e tu ci sei dolce amico. Tu sorridi accanto a me.” L’uomo di cui parliamo è Enrico Berlinguer. Vorrei iniziare con un primo grande mito da sfatare: Berlinguer non era assolutamente una persona triste, tutt’altro. Amava molto le motociclette per esempio, e non risparmiava il suo staff da scherzi e da prese in giro. In particolare una volta in cui il gruppo del PCI era a pranzo fece  cambiare il menù ad un deputato dal cameriere, dicendogli che quest’ultimo non era stato molto bene e non doveva appesantirsi mentre non era vero; dunque questo deputato comunista vedeva gli altri che mangiavano ottime pietanze, mentre lui era costretto a sorbirsi cibi di tipo quasi ospedaliero. Al netto di questi episodi è innegabile che Enrico fosse un uomo molto timido e introverso, con un animo gentile, sempre attento alle esigenze degli altri. E tutti questi tratti risultarono evidenti nel corso della sua segreteria. Ma andiamo con ordine: Berlinguer diventa segretario del Partito Comunista Italiano nel 1972. Possiamo distinguere tre fasi principali della sua azione politica: una fase iniziale di apertura e di sdoganamento di alcune posizioni che erano rimaste ambigue negli anni precedenti, rispetto al rapporto con l’URSS e con la sua azione nell’Est europeo; poi abbiamo la fase del compromesso storico, quindi della necessità di formare un tessuto forte di partiti che potesse reggere all’urto delle Brigate Rosse; infine il periodo dell’alternativa, che è caratterizzato dal principio dell’austerità e dalla questione morale.

Andiamo al primo periodo: siamo nel 1972, Longo, il segretario del PCI aveva da poco avuto un emorragia celebrale, e dunque il XII congresso del partito nominò segretario Enrico Berlinguer. La svolta che il nuovo segretario subito impose è esplicitata in un distaccamento dalle posizioni dell’Unione Sovietica: basti pensare che nel 1973 egli si recò in Bulgaria per incontrare il capo di stato Todor Živkov ed ebbe con lui uno scontro durissimo riguardo la vicenda ancora scottante dell’Ungheria.  In questa occasione Berlinguer rischiò addirittura  di morire, perché, mentre la sua macchina stava ritornando in aeroporto, un camion sbucò da una stradina laterale centrando esattamente la sua macchina, la quale andò per fortuna a sbattere contro un palo. “Per fortuna” perché questo impedì che la macchina andasse a finire in un burrone. In merito a questo episodio non è stato mai provato con certezza, ma allo stesso tempo non è impossibile, che vi sia stata una regia precisa dietro. Stessa linea di distacco dall’URSS, ma in maniera molto più marcata, esprimerà nel 1977 con un discorso in occasione del sessantesimo anniversario della rivoluzione rossa. Allora ebbe a dire: “ L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere ma anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’autentica società socialista. Ecco perché la nostra lotta unitaria (che cerca costantemente l’intesa con altre forze di ispirazione socialista e cristiana in Italia e in Europa occidentale) è rivolta a realizzare una società nuova, socialista, che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale ideale”. Il pubblico impietrito da queste parole applaudì per solo 7 secondi, l’applauso più breve mai riservato a qualcuno in una convention comunista. Oltre a ciò, non ebbe paura di dire in un programma televisivo che il Partito Comunista Italiano si sentiva più sicuro nel patto Nato per costruire una società socialista basata sulla libertà, sul pluralismo e sulla democrazia. Una posizione assolutamente rivoluzionaria per un leader comunista.

Passiamo ora alla fase del compromesso storico. Il compromesso storico fu innanzitutto una proposta di governo indirizzata a tutte le forze politiche, e non solo alla Democrazia Cristiana come spesso erroneamente si pensa. Per comprenderne le ragioni alla base dobbiamo fare una precisazione, senza la quale non è possibile comprendere determinati aspetti: Berlinguer non era assolutamente un laicista, bensì un laico. Questa è una differenza sostanziale e non un gioco di parole come potrebbe apparire. Egli aveva un grande rispetto del mondo cattolico e di coloro i quali pur essendo cattolici militavano nel Partito Comunista: dimostrazione di questo fu il coraggioso carteggio iniziato dal vescovo di Ivrea Monsignor Bettazzi, al quale Berlinguer rispose dicendo che il P.C.I non era né teista né ateista né antiteista, ma semplicemente laico. E affermava altresì che in quest’ottica il Partito Comunista si rifaceva sì a Marx come ordinamenti generali e come principi, ma che la persecuzione di questi principi non era dogmatica e assoluta, bensì  valutata e interpretata. Questa osservazione è doverosa, poiché senza di essa non si capirebbe come fosse stato possibile intessere un contatto tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista italiano. Ma torniamo al compromesso storico. La sua concettualizzazione da parte di Berlinguer nacque a partire dal 11 settembre 1973, data in cui il governo socialista di Salvador Allende fu rovesciato da Augusto Pinochet. Sulla base di questo e sulla base anche del tentativo del Golpe Borghese del 1972, Berlinguer temeva per la tenuta democratica del paese e quindi propose un’alleanza tra tutte le forze democratiche, di cui naturalmente la Democrazia Cristiana era la più importante, per far fronte al problema del terrorismo. L’intesa si sarebbe dovuta concretizzare il 16 marzo 1978, data in cui si doveva votare un governo monocolore Dc, sotto la presidenza di Giulio Andreotti, con l’appoggio esterno dei comunisti. Tuttavia, come è noto, in questa data le Brigate Rosse ruppero di fatto il compromesso storico attraverso Il rapimento di Aldo Moro (di cui abbiamo già trattato). Da questo momento in poi il compromesso storico finì, in quanto venne a mancare uno dei principali fautori, e dopo qualche mese Berlinguer ripostò il Partito Comunista all’opposizione. Venne dunque il momento della “Alternativa democratica”, ovvero della necessità di creare un alternanza al governo tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. Ricordiamo a tal proposito che Berlinguer poteva permettersi una posizione del genere in virtù delle elezioni del 1976 laddove venne raggiunto il massimo storico del P.C.I. ovvero il 34%, esattamente a 2 punti di distanza dalla Dc che aveva ottenuto il 36%. Il progetto alla base di questa alternativa consisteva nella cosiddetta politica di austerità. Questo termine, che ci riporta alla mente il recente periodo del governo Monti, istintivamente ci fa storcere il naso. Tuttavia bisogna tener conto che in quel frangente politico questo termine aveva tutt’altro significato, e non l’accezione negativa che noi gli attribuiamo oggi. Austerità in quel periodo significava porre un ordine che passava principalmente attraverso la questione morale. La questione morale che Berlinguer sollevò riguardava sostanzialmente il ruolo dei partiti e la commistione della loro vita interna con la vita pubblica. Questa teoria si basava sostanzialmente sul principio sancito dalla costituzione che i partiti erano associazioni private, le quali non dovevano avere troppa ingerenza in questioni pubbliche, ma essere solamente un punto di contatto tra la classe dirigente e gli elettori. Da un punto di vista politico, Berlinguer non riuscì realizzare nessuna di queste politiche, né quella del compromesso storico né quella dell’austerità e della questione morale. Ma nonostante ciò, è stato capace di raccogliere attorno a sé un affetto, un amore da parte della sua gente, che lo faceva apparire quasi come una persona di famiglia: i ragazzi lo vedevano come un padre, gli adulti come un fratello, gli anziani come un figlio. Val la pena a questo proposito di raccontare gli ultimi giorni della sua vita. Il 7 giugno 1984 Enrico tenne un discorso a Padova. Fu l’ultimo. Egli veniva da Genova ed era visibilmente affaticato già dalla mattina: mangiò molto poco. A questo proposito esiste una bellissima testimonianza di  Silvio Finesso contenuta nel film “Quando c’era Berlinguer” di Walter Veltroni, in cui lo stesso Finesso a distanza di 30 anni dalla morte di Enrico è costretto a fermarsi per la commozione. Anche questo è un aspetto da sottolineare. Sono passati trent’ anni dalla sua morte, eppure quando nelle interviste la gente che gli è stata accanto parla di lui piange ancora. Come se il tempo non fosse passato. Come se la mente tornasse ai funerali in Piazza San Giovanni quel 13 giugno, a quella folla sterminata, che rendeva omaggio ad un uomo che è stato capace di farsi benvolere anche dai suoi avversari politici (ricordiamo che Giorgio Almirante, il segretario del Movimento Sociale Italiano andò a rendere omaggio alle sue spoglie). Per concludere questo discorso su un uomo che ho profondamente amato, non trovo parole migliori di quelle di Ugo Foscolo, il quale ne “I sepolcri” affermava: “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca Gioia ha dell’urna”. E tu, Enrico, di affetti ne hai avuti tanti. E nonostante siano passati tanti anni dalla tua morte, continui ad averne e ne avrai sempre.

 

Ciro Savarese III H

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