ApocalypseVietnam #3: “Il miglior libro sulla guerra del Vietnam” (The New York Times)

del prof. Lucio Celot

M.Herr, Dispatches (1977)

 

Non riuscivi a trovare due persone

che fossero d’accordo su quando era iniziata,

come facevi a dire quando era stato l’inizio della fine?

 

Sapevamo che la maggior parte delle informazioni era flessibile,

pezzi diversi di territorio raccontavano storie diverse e persone diverse.

Sapevamo anche che ormai da anni

qui non c’era altro paese che la guerra.

 

Odio questo film

(un marine ferito in attesa di essere evacuato)

           

Suoni, voci, rumori, corpi, impressioni, orrori: questo e altro ancora è Dispacci, il reportage di Michael Herr, inviato dalla prestigiosa rivista “Esquire” tra il 1967 e il 1969 a seguire l’andamento della “sporca guerra” americana nel sud-est asiatico. A cinquant’anni dalla tragica conclusione della fallimentare avventura a stelle e strisce in Vietnam, fa ancora effetto rileggere le pagine di Herr, allora giovanissimo corrispondente di guerra che per un anno e mezzo condivise con i soldati pericoli e operazioni rischiosissime, volando instancabilmente lungo tutto il Vietnam del Sud fino al confine con il Laos e senza mai sottrarsi al dovere professionale di testimoniare le fasi della guerra forse più controversa dell’intero ventesimo secolo. Da Khe Sanh a Hue, dal delta del Mekong a Danang, da Saigon a Na-Trang, Herr ha vissuto in prima persona e in prima linea le drammatiche e sanguinose settimane dell’offensiva del Têt, nel gennaio del 1968, che ha segnato l’inizio della disfatta americana (di lì a poco, l’amministrazione Johnson avrebbe avviato il progressivo ritiro delle truppe, eufemisticamente chiamato “disimpegno”, arrivate a più di mezzo milione di effettivi, e negoziato la pace del 1973, anche se la guerra finì solo due anni più tardi con la presa di Saigon da parte dell’esercito del Nord).

Con il loro stile “immersivo” e una narrazione soggettiva, frammentata e fortemente emotiva, le quasi trecento pagine del libro insinuano il dubbio rispetto a qualsiasi altro rassicurante resoconto sulla guerra e restituiscono in modo magistrale il clima allucinato, schizofrenico e insensato in cui il venticinquenne Herr fu catapultato insieme a qualche altro migliaio di corrispondenti e giornalisti da tutto il mondo: clima tanto più vero e reale perché in questa non-fiction in cui non mancano riflessioni di carattere filosofico sul fascino perverso che la guerra da sempre esercita sulla psiche umana, a prevalere è lo sguardo di Herr, capace di costruire quella che Saviano nell’introduzione all’edizione italiana definisce “un’epica della sconfitta”. Quello che inizialmente doveva essere un approccio freddo e distaccato ai fatti, viene rapidamente modificato dalla drammaticità degli eventi di cui Herr è stato testimone oculare: Dispacci non è un libro di informazione geopolitica ma un insieme di rapidi scorci capaci di fare rivivere al lettore le sensazioni dal fronte. Non è un caso che da questo libro, insieme a Nato per uccidere di Gustav Harford, Coppola e Kubrick trassero spunto per i loro capolavori, Apocalypse Now e Full Metal Jacket; e Herr contribuì alle sceneggiature di entrambe le pellicole, oggi universalmente riconosciute come i due pilastri del nostro immaginario filmico sul “pantano indocinese”. Herr, che del libro è narratore e personaggio allo stesso tempo, quella guerra l’ha fatta non come soldato ma come scrittore, e di quella guerra ci restituisce tutto, il costante senso di insicurezza e imminenza di una morte incombente ad ogni istante, lo scetticismo dei soldati che sanno bene di non essere lì per difendere la democrazia ma combattono lo stesso perché “se c’è un nemico bisogna ammazzarlo”, la novità di una guerra combattuta per la prima volta con l’ausilio imprescindibile degli elicotteri, lo stress psicologico causato da un nemico invisibile, la grande menzogna dei generali che, Westmoreland in testa, negano spudoratamente l’evidenza di una guerra che un esercito regolare non potrà vincere in nessun caso.

Dispacci non ha una trama, non potrebbe averla perché è quella stessa guerra ad esserne priva, è un romanzo-reportage che è parte di quel “budino massmediale” che lo stesso Herr individuava come unica possibilità di racconto dell’evento più denso di conseguenze della storia recente degli USA: Herr è onesto nel ribadire costantemente la sua incapacità di rendere in modo soddisfacente quanto ha visto, non c’è una cornice di senso per quello che accade ai militari americani, l’inferno e la seduzione della giungla, l’ostinazione e la resistenza dei vietcong, i cadaveri crivellati di colpi, le mutilazioni e le ferite che significano “si torna a casa!”, il rifugio nella droga, la follia, la chitarra distorta e psichedelica di Jimi Hendrix a fare da sottofondo ai combattimenti, le stragi di civili innocenti. In fondo Dispacci è e resta una grande libro perché ci dice anche qualcosa sulla condizione umana, sulle scelte che ognuno di noi fa quando decide di stare da una parte e se ne assume meriti e colpe, a rischio di perdere la propria umanità; rielaborazione del lutto di un’intera generazione, “narrazione psicotica”, “visione del Vietnam antiretorica”, “letteratura d’esperienza”, “rammemorazione delle turbe legate alla guerra”, chiamatelo come volete ma Dispacci è un libro che non andrebbe raccontato ma letto e “vissuto” nel profondo di ognuno perché, come dice Herr in chiusura, “in Vietnam ci siamo stati tutti”.

 

Michael Herr, Dispacci. L’orrore del Vietnam negli occhi dei soldati americani, BUR Rizzoli 2008

 

I passi tra virgolette nell’ultima parte dell’articolo sono tratti da:

M.Pala, Elicotteri e simulacri. Trauerarbeit per il Vietnam in Dispatches di Micheal Herr disponibile in  https://www.academia.edu/97112619/Raccontare_la_guerra

 

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