APOLLO E DAFNE: TRA L’AMORE E L’OSSESSIONE
di Sara Iannicelli (VD)
“Stanca, anelante a la paterna riva,
qual suol cervetta affaticata in caccia,
correa piangendo e con smarrita faccia
la vergine ritrosa e fuggitiva.
E già l’acceso Dio che la seguiva,
giunta omai del suo corso avea la traccia,
quando fermar le piante, alzar le braccia
ratto la vide, in quel ch’ella fuggiva.
Vede il bel piè radice, e vede (ahi fato!)
che rozza scorza i vaghi membri asconde,
e l’ombra verdeggiar del crine aurato.
Allor l’abbraccia e bacia, e, de le bionde
chiome fregio novel, dal tronco amato
almen, se’l frutto no, coglie le fronde”
Il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne venne realizzato da Gian Lorenzo Bernini nel 1622 ed è attualmente custodito nella Galleria Borghese di Roma.
L’opera prende ispirazione proprio dal mito di Apollo e Dafne, trattato in un episodio delle “Metamorfosi” di Ovidio.
La storia vede protagonista Apollo: divinità della musica, delle profezie e dell’intelletto, che offese e si prese gioco di Eros, dio dell’amore, dicendogli di non essere per nulla capace nell’impiego delle armi, a differenza sua che invece aveva da poco ucciso il serpente Pitone.
A tale provocazione Eros, irato, decise di vendicarsi. Sfilò quindi dalla sua faretra due frecce, una d’oro e l’altra di piombo: con la prima trafisse il cuore di Apollo, il quale si innamorò perdutamente di Dafne, contro la quale invece venne scoccata la freccia di piombo, capace di allontanare totalmente le persone dall’amore, portandole quasi a provare disgusto per quest’ultimo.
Dafne era una naiade, figlia del fiume Peneo, una ragazza che amava la libertà e la natura, devota alla dea Artemide e, forse proprio per questo, totalmente disinteressata all’amore e agli uomini.
Dunque, quando il Febo si presentò alla fanciulla come un dio dal bellissimo aspetto, ella, sia a causa del suo carattere schivo ma in particolare per via della freccia di piombo, lo respinse, ma lui, essendo totalmente “accecato dall’amore”, non riuscì ad accettare il rifiuto e cominciò a rincorrerla.
Si dice che la bella ninfa, terrorizzata, pur di mettere in salvo la sua libertà, corse per ben due giorni nei boschi, finché Apollo non la trovò e quindi lei, sfinita, chiese aiuto al padre Peneo, il quale decise di aiutarla trasformandola in un albero di alloro, proprio nel momento in cui il dio riuscì ad afferrarla.
È proprio questo il momento che Bernini decise di scolpire nel marmo.
Nella scultura Apollo viene raffigurato come un giovane dal corpo scolpito, che, ansimando per la fatica della corsa, si protende in avanti avvinghiandosi con il braccio sinistro alla fanciulla; il dettaglio della tunica che si gonfia a causa del vento dona dinamicità all’opera.
Dafne invece sul volto ha un’espressione impaurita e sorpresa; d’un tratto il suo corpo stava mutando: le sue braccia erano ormai rami, le gambe erano divenute un tronco e i piedi si stavano trasformando in radici.
L’artista decide di giocare molto sul fattore dell’equilibrio: entrambi i soggetti sono in bilico e si estendono nel vuoto, Apollo in piedi su un solo piede e Dafne inarcata in avanti, ancora speranzosa di poter sfuggire alla sua presa, ma, nonostante ciò, Bernini riesce a trovare un perfetto bilancio, riuscendo a far apparire i movimenti leggiadri e coordinati.
La scultura, dunque, è tratta da un mito che parla di una debolezza, che seppur manifestata da una divinità, è molto frequente anche nella vita reale.
Troppe, difatti, sono le volte in cui si sente di ragazzi, amici, fidanzati e mariti che per un “no” hanno ferito, mutilato e talvolta anche ucciso la donna da cui sono stati rifiutati.
Troppe volte si sente di donne spinte a rinunciare alla loro libertà, obbligate a cambiare, forzate a fare cose che non vogliono sia da estranei, ma purtroppo anche da coloro di cui si fidano, “per amore”.
L’amore non è un sentimento morboso, un’ossessione: se fa paura o male, se ti sfinisce o perseguita, se diventa un peso, un’imposizione, non è amore, perché l’amore è ciò che ti protegge, non ciò da cui devi essere protetta.
In tanti dovrebbero imparare a placare i propri istinti, a gestire le proprie debolezze, a bloccare la propria libertà quando questa comincia ad invadere quella degli altri, ma soprattutto ad accettare i “no”.
Se solo si diffondesse l’usanza dell’educare i figli a diventare uomini civili, se solo non fossimo più viste come delle bambole di proprietà da strattonare e gettare via, se solo le nostre parole non fossero più ritenute come lamentele inutili da poter ignorare e la nostra libertà come un’opzione, allora, solo in quel caso, potremmo non avere più paura di dover diventare “un albero di alloro”.