Il Populismo? E’ un mood… (Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi 2017)

del Prof. Lucio Celot

Politologo, sociologo ed economista, da sempre attento alle dinamiche socio-politiche postnovecentesche, Revelli definisce “2.0” (o Neopopulismo) la “malattia senile” della democrazia rappresentativa in cui l’Europa sta cadendo, e propone al lettore già nelle prime pagine del saggio una definizione o, almeno, dei denominatori comuni per la comprensione di un fenomeno che si presenta sotto diverse declinazioni.

     “Populismo” è, in effetti, una catch-all-word, una parola piglia-tutto, un concetto che deriva a sua volta da un altro termine-chiave che spiega bene il nostro tempo, “Postdemocrazia”, ovvero la forma che sta assumendo la democrazia occidentale, sempre meno rappresentativa e sempre più oligarchica e “esecutoria”: da questa “torsione” patologica della democrazia, da questo deficit di rappresentanza (unitamente agli effetti negativi della globalizzazione, e cioè il sostanziale declino economico – ma non solo – dell’Occidente), provengono il risentimento e il desiderio di vendetta contro un establishment riconosciuto come incapace di fare fronte all’imperversante disagio sociale, economico ed esistenziale. Il “Populismo 2.0” non è, scrive Revelli, uno dei tanti -ismi che si sono succeduti o affrontati nel Novecento, non un partito, non un soggetto politico ben definito o uno dei tradizionali contenitori o vettori del malcontento ma, piuttosto, un mood, un modo di sentire, una “forma” che dà corpo e voce ai “traditi” e ai forgotten men, soprattutto all’interno della working class occidentale.

            Al netto di tutti i tentativi di definirlo “scientificamente”, Revelli individua tre elementi che accomunano le diverse espressioni del Populismo:

  • il riferimento, com’è ovvio, al Popolo, inteso come comunità vivente, entità organica indissolubilmente legata al suolo di origine, la cui Purezza va difesa da qualunque entità “altra” che la possa contaminare: politicamente parlando, al conflitto “orizzontale” tra diverse forze o culture politiche (destra/sinistra) si sostituisce un conflitto “verticale” (in altro, contro le élite di ogni tipo; in basso, contro immigrati e stranieri in genere). Su questa versione “escludente” del concetto di Popolo si può leggere anche il saggio di Marco Aime Si dice cultura, si pensa razza nel volume collettivo Contro il razzismo, Einaudi 2016;
  • l’idea del Tradimento, consumato a vario titolo da élite, poteri forti, establishment politico etc. ai danni dei cittadini comuni, che nell’ottica populista diventano il contraltare etico – positivo – rispetto alla corruzione, alla disonestà, alla falsità dell’Altro (dunque, un’altra forma di opposizione, di sentimento antitetico);
  • l’idea del Rovesciamento liberatorio, della rivoluzione dal basso che realizza finalmente e compiutamente la sovranità popolare riconquistata: la cacciata dell’oligarchia corrotta e usurpatrice avviene grazie alla guida del leader carismatico (attualissimi, a questo proposito, gli studi di Weber) che lavora per il bene del popolo.

 

Per attecchire, il Populismo necessita, in ogni caso, di un contesto di crisi che determini diffuso malessere e sfiducia nei confronti della classe dirigente.

Insomma, dice Revelli, il Neopopulismo come “stile politico”, come “impulso” e “forma” più che contenuto, ha un carattere “bipolare”, “bifocale”, volto a dividere lo spazio politico in “alto e basso”, tra “troppo potenti” e “troppo poco”: rifacendosi alla definizione di un politologo olandese (Cas Mudde) che nell’argomentazione di Revelli funge da costante termine di verifica, è possibile pensare al Populismo come un’ideologia che considera la società fondamentalmente separata in due gruppi omogenei e antagonistici, “il popolo puro” versus “l’élite corrotta”, e che sostiene che la politica dovrebbe essere espressione della “volonté genérale del popolo.

Alla luce di questa definizione del fenomeno, Revelli analizza, prestando grande attenzione all’analisi “geografica” e allo scorporo dei dati (espressione di voto, età, livello di istruzione, reddito medio, residenza, etc.) l’elezione di Trump in America, il voto refendario sulla Brexit nel Regno Unito, l’ascesa del Front National della Le Pen in Francia, il declino dei moderati e l’ascesa dell’AfD in Germania. Senza entrare nei dettagli, quello che emerge è un quadro in cui l’elettorato populista sulle due sponde dell’Atlantico si somiglia parecchio: segnato da umori eterogenei di perdita e di deprivazione, unificato dalla sensazione di essere stato ricacciato in un qualche “margine”, cioè in una posizione marginale in termini di status, di ruolo, d’immagine di sé e di reddito. Insomma, diversi ma accomunati dalla condizione di “dimenticati” e “traditi” dalle rispettive classi dirigenti, dalla grande finanza, dalla fine del welfare solidaristico e soprattutto dalla sinistra che è stata incapace di articolare la protesta in un progetto politico convincente.

L’ultima parte del saggio è dedicata all’Italia, considerata da Revelli un vero e proprio laboratorio, un case study in cui il populismo si è presentato in forma precoce e in ben tre varianti :

  • il telepopulismo berlusconiano, sorto dal nulla per il tramite di un instant-party, un partito costruito da esperti in marketing e comunicazione che immediatamente è diventato una impressionante base di massa: la totale personalizzazione carismatica da parte dell’homo novus Berlusconi è stata la vera novità nello scenario politico italiano;
  • il cyberpopulismo di Grillo, che a differenza di quello berlusconiano non è stato un fulmine a ciel sereno ma l’esplodere di una corrente carsica di malcontento che già serpeggiava nel paese: il declino della televisione e l’ascesa del web come nuovo strumento di organizzazione del consenso sono stati, secondo Revelli, la causa del parallelismo tra la caduta di Berlusconi e l’ascesa del M5S, sintomo questo del fatto che a ogni nuova tecnologia comunicativa potrebbe corrispondere una ben definita forma di populismo. Tant’è che il M5S ha scompaginato il bipolarismo italiano trasformandolo in tripolarismo (con le conseguenze sul piano del sistema elettorale che sono sotto gli occhi di tutti);
  • infine, il populismo dall’alto (o di governo) di Renzi, che voleva essere una sintesi di telepopulismo (Renzi ha usato bene i media e si è sempre rivolto direttamente ai cittadini) e di grillismo “anticasta” (“rottamazione” era la sua parola d’ordine) finalizzato però ad una governance compatibile con l’equilibrio europeo e con il sistema politico corrente: non a caso, Renzi ha sempre avuto il sostegno di Confindustria, di Bruxelles, di Francoforte, della Merkel e di tutti i nemici giurati del M5S. La sonora bocciatura al referendum costituzionale del dicembre 2016 (un anno davvero terribilis!) è stato però il segnale che gli Italiani, di fronte alla instabilità sociale ed economica ancora perdurante, non si sono fidati delle sirene (e dell’ostentata sicurezza, ai limiti dell’arroganza) del renzismo ed hanno invece trovato nella Costituzione, nella Carta dei diritti e dei doveri, un ombrello protettivo sotto cui ripararsi. Niente decisioni shock, dunque (al contrario di quanto fatto dagli Americani o dai Britannici) ma un No! deciso con cui gli Italiani hanno mandato un segnale preciso al nuovo establishment.

Che fare, allora? Basterebbe capire, dati alla mano, che il popolo dei traditi, degli insoddisfatti e degli arrabbiati, il “popolo delle vittime” così sensibile ai richiami dei nuovi populismi ha bisogno di segnali chiari: politiche redistributive della ricchezza (in un’epoca in cui, come scriveva Gallino, c’è una nuova lotta di classe in cui il reddito viene redistribuito dal basso all’alto), sistemi sanitari efficienti, tutela del sistema pubblico dell’istruzione, riduzione dei tagli alla spesa pubblica, in una parola meno politiche di austerità imposte dall’Europa. Un riformismo, chiude amaramente Revelli, che oggi appare addirittura rivoluzionario…

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