La fugacità del tempo: Il deserto dei Tartari
di Ginevra Fracasso (IIA)
Da sempre, per sua indole, l’uomo ha dovuto fare i conti con il soffocante bisogno di spiegare con la logica ogni aspetto della sua esistenza, spesso tuttavia fallendo, poiché vi sono dei tratti della vita umana che non possono essere accostati alla razionalità, come, per esempio, il tempo relativo.
Allora, non riuscendo sempre a fare affidamento sulla spiegazione scientifica dei fatti, egli ha trovato un’ancora di salvezza in primo luogo nella religione, ma anche nella scrittura, mezzo infinitamente liberatorio, che consente di sciogliersi da ogni vincolo imposto dalla logica che, talvolta, incatena la nostra anima e la nostra realtà impedendo quell’introspezione che consente quasi di sfiorare la propria essenza.
Dunque il tempo, nel corso dei secoli, s’è radicato nella letteratura, poiché tematica avvolta da un alone sinistro di mistero ed inquietudine.
Un romanzo che tratta in modo a dir poco suggestivo il tema della fugacità del tempo è Il deserto dei Tartari, di Dino Buzzati, pubblicato nel 1940 dalla casa editrice Rizzoli.
Il libro pone le fondamenta su una sinistra allegoria esistenziale, il cui protagonista è Giovanni Drogo, che, appena ventenne, divenuto ufficiale, si reca in un luogo indefinito, la Fortezza Bastiani, circondata da un immenso e privo di vita deserto, che si estende per chilometri e chilometri isolando del tutto la fortezza da qualunque contatto con la città o con altri popoli.
Ebbene, Giovanni, in un primo momento intimorito dalla desolazione del singolare
luogo, decide di rimanervi per non più di quattro mesi.
Durante tale permanenza, egli viene però informato di un comune pettegolezzo: il possibile e forse imminente arrivo dei Tartari, una popolazione nemica e nomade che aveva, in un remoto passato, attraversato il deserto.
Il pensiero di una possibile guerra che potesse spezzare lo scorrere d’un tempo fin troppo veloce ma trascorso all’insegna della noia, accendeva gli animi di tutti i soldati della fortezza, i quali attendevano, attendevano ed ancora attendevano inquieti che l’incantesimo del veloce svanire degli anni potesse spezzarsi.
Da tale incipit, si costruirà una vicenda composta da estenuante attesa, desiderio di fuggire al comune destino di morte di ogni uomo, ma ricerca allo stesso tempo di un pilastro che potesse assolvere la propria persona dall’adattamento ad una monotonia (quasi) senza fine.
Il deserto dei Tartari presenta un ritmo rallentato da numerose descrizioni di luoghi, pensieri e persone. Tale lentezza conferisce alla lettura l’idea stessa che il romanzo propone, ovvero, da un lato il tempo fin troppo scandito, dunque uno scorrere dello stesso apparentemente lento… dall’altro, invece, l’inconsapevolezza del momento che fugge, quindi delle pagine che, anche se sembra accada l’opposto, finiscono, prima ancora di potersi rendere conto di quanto la vita del protagonista, che sembra ancora tutta da assaporare, in realtà non sia poi così lunga…
Si tratta di un romanzo quindi tracciato da una paradossale genialità che vi è proprio nella capacità dell’autore di congiungere stile e contenuti pur correndo il rischio di rendere l’opera lenta e, perciò, forse piuttosto pesante.
La lettura de Il deserto dei Tartari allora finisce per colpire profondamente l’anima del lettore, il quale giunge, nel corso della narrazione, ma in particolar modo alla fine, a confrontarsi con la logorante sensazione di guardarsi indietro ed accorgersi che il percorso fino ad ora solcato a grandi passi, forse persino correndo, non fa altro che scivolare tra le dita come un assiduo flusso d’acqua che, tuttavia, è destinato ad esaurirsi più in fretta di quanto si possa immaginare.
“Giovanni Drogo adesso dorme nell’interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice.
Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d’erba, tutto così da immemorabile tempo.”