Unknown origins (origini sconosciute)
di Linda Paesano IG
Ricordo il giorno in cui venni adottato.
Io ero presente.
Era la mattina del 22 dicembre 1959, avevo appena due mesi.
Eppure io ero presente.
Nevicava, o pioveva, quella mattina, nessuno avrebbe saputo ben dirlo, la gente si impettiva dietro eleganti manici di ombrelli colorati, che a tutto servivano, fuorché a proteggere dal gelo dei fiocchi in contrasto con la pelle.
Era tutto un vantarsi di avere questo o quest’altro, io ce l’ho e tu no, era questo. E nient’altro.
Io non avevo nulla, se non un corpo normale, con una vita non agiata ma normale.
Né ricco, né povero, soltanto normale.
I normali erano esattamente i neutrali, coloro che non appartenevano né al ceto ricco, neanche a quello povero.
I normali semplicemente erano invisibili, con loro ci scambiavi qualche parola nel corridoio della scuola, poi ognuno per sé.
I ricchi si preoccupavano accuratamente di evitare i poveri. Quelli che non possono permettersi neanche il pagamento totale delle rette scolastiche. Quelli che non possono permettersi una vita agiata, un ceto sociale molto diffuso all’epoca. Quelle persone soggette a discriminazioni più di chiunque altro tra i bianchi, quelli che stringevano amicizia con i neri, che venivano evitati come la peste.
I classici sottovalutati pieni fino alle punte dei capelli di valori da insegnare, ma che nessuno calcola per via del reddito.
I soldi sono in cima alla piramide, qualunque piramide.
In cima alla piramide umana, in cima alla scala sociale, in cima alla società, persino in cima alla piramide alimentare.
Dovrebbero essere in cima ai diritti di tutti i cittadini, se davvero sono così importanti.
Se in cima ai diritti dei cittadini c’è la cultura, un motivo ci sarà.
Tutti quei soldi non possono comprarla, la cultura è la vera ricchezza.
Vallo a dire ai ricchi. Quelli non capiscono mai nulla.
I loro occhi si illuminano soltanto alla vista di colorate banconote con cifre corpose di zeri.
Quelle stesse banconote di cui i miei stessi polpastrelli non hanno mai sentito la consistenza.
Una volta, soltanto una volta, vidi due uomini in un angolo, che si scambiavano un numero indecifrato di banconote.
In una strada trafficata, sarebbe stato l’appostamento più furbo.
E quella era una strada molto trafficata, ma evidentemente il più furbo ero io.
O almeno, così credevo.
Mio padre venne a prendermi per un orecchio, e di avvicinarmi a quei due uomini feci soltanto la pensata.
Per settimane non passò giorno in cui non sciorinassi teorie ed ipotesi sul senso di quell’azione per me tanto eclatante.
Eppure un giorno, da bravo adolescente quale ero diventato, tornando da scuola mi insinuai in un angolo, quello stesso angolo, e rimasi in attesa per ore. Quei due uomini, quegli stessi uomini, erano stati rimpiazzati da altri due uomini, di gran lunga più giovani, ma sempre adulti. I loro due figli maschi. Avevano preso il posto dei padri, e dividevano e scambiavano il ricavato del lavoro di un intero anno per giocarselo d’azzardo. Ah, se mio padre avesse mai scoperto che io ero lì in quel momento, ad origliare, sarebbe venuto a prendermi per un orecchio di corsa. Lui odiava il gioco d’azzardo, toglieva il tempo alle cose utili e meritevoli, come l’amore e la famiglia, due cose da tradizione molto importanti e immancabili. Lo spaventava l’idea che io potessi conoscere la cattiveria del mondo, e le sue cattive abitudini, e che potessi prenderne parte. Per lui era sempre troppo presto, persino per spiegarmi in che modo nascevano i bambini. Forse per imbarazzo, forse per una certa visione bambinesca di me stesso, si ostinava a dire che era la cicogna a portarli in un grosso fagotto che teneva stretto nel becco. Ma non essendo poi stato così leggero, appena nato, con certezza la cicogna sarebbe precipitata, storia alquanto non credibile. Persino per un bambino dalla così fervida immaginazione come me.
E forse per imbarazzo, o forse per paura, soltanto maggiorenne mi ha raccontato di come e di quando i miei genitori mi hanno trovato.
Era esattamente il 22 dicembre 1959, ed io avevo appena due mesi.
Pioveva, o nevicava, nessuno avrebbe saputo dirlo con certezza.
Ciò che era certo, era che io fossi forse più pallido della neve.
Soltanto due mesi fa, mi hanno detto, i miei genitori, del paese dal quale provengo. La Romania.
Esattamente il 22 dicembre 1979 mi hanno detto che provengo dalla Romania.
Un posto con pochi alberi, Oradea, Romania.
Oggi, 22 febbraio 1980, penso che voglio tornarci, da dove sono venuto. Voglio tornare a casa mia. La mia vera casa.
E forse per paura, o forse per amore, i miei genitori non mi avevano mai parlato della mia terra d’origine prima.
Oggi, 22 febbraio 1980, penso, mentre guardo questi alberi che si infittiscono sulla mia testa con quei rami così intricati, che questi fusti mi ricordano casa mia, pur non avendola mai avuta davanti agli occhi.
Penso che sono pronto.
Pronto a partire.
A rivederci, mamma e papà non biologici, che non mi hanno fatto mai mancare nulla, e mi hanno accolto e trattato come un figlio.
Tornerò dalla Romania a trovarvi con qualche bel ricordo del posto, e lascerò questa magnifica città con una splendida scatola d’argento straripante di meravigliosi ricordi.
A rivederci, Mamma e Papà.
A presto.