Vincere senza avversari
di Miriam Perrone(4A)
Vincere senza Avversari
La notizia è ufficiale e il dissenso è assordante. Mohammed Ben Sulayem (MBS), l’ex pilota di rally emiratino, è stato rieletto presidente della Fédération Internationale de l’Automobile (FIA) per un
secondo mandato quadriennale. Il voto, tenutosi a Tashkent nel dicembre di quest’anno, è stato un trionfo incontrastato: MBS era l’unico candidato in corsa.
Per i neofiti, la FIA è l’autorità suprema della Formula 1, l’ente che scrive le regole, sanziona i piloti e garantisce l’integrità. È proprio l’integrità il punto focale di questa rielezione. Mentre Ben Sulayem celebra il risanamento finanziario della Federazione (portata da una perdita di 24 milioni di euro nel 2021 a un attivo di 4.7 milioni nel 2024), gli attori chiave del motorsport, piloti e fan (me compresa), si interrogano sul prezzo di questa stabilità economica: una sistematica distruzione delle garanzie di trasparenza.
L’Illusione del Voto
Il problema non è chi ha votato, ma chi non ha potuto candidarsi. Questa elezione incontrastata non è frutto di un consenso universale, ma è la conseguenza chirurgica di manovre politiche e procedurali che hanno reso la competizione matematicamente impossibile.
L’ostacolo è stato imposto da una norma sulla scelta dei vicepresidenti: la necessità di un rappresentante per il Sud America, figura che poteva essere solo Fabiana Ecclestone, già schierata con MBS. L’assenza di sfidanti, come l’americano (che ha parlato di “illusione della democrazia”) e la candidata Laura Villars (che ha portato il caso in tribunale), ha dimostrato che le regole attuali sono costruite appositamente per chi ha già un network consolidato, rendendo la competizione basata sui programmi una chimera.
“Il potere non è un mezzo; è un fine. Non si stabilisce una dittatura per salvaguardare una rivoluzione; si fa una rivoluzione per stabilire una dittatura.” Questo monito del celebre George Orwell ci ricorda che al momento l’obiettivo non è migliorare la FIA, ma assicurare il controllo per il controllo stesso.
La Campagna di Epurazione
L’accusa di “dittatura” si basa su una serie di fatti istituzionali che hanno cementato la struttura di potere di MBS, a partire dalle modifiche statutarie che gli hanno conferito il controllo diretto sui reclami etici e la possibilità di nominare i Capi più importanti, smantellando gli organismi di controllo nati per sorvegliarla.
Una leadership non teme le indagini quando ne controlla direttamente i giudici. L’effetto di questa centralizzazione è stato immediato, causando una vera e propria crisi interna che ha portato all’uscita di figure di alto livello come il Vicepresidente Robert Reid, che ha citato un “crollo fondamentale degli standard di governance”.
Il comportamento del presidente, descritto come un vero e proprio “tiranno”, permette di inquadrare sotto un’altra prospettiva anche le manovre di dissuasione contro i possibili futuri oppositori, come le accuse infondate contro Susie Wolff e la repentina retromarcia di Carlos Sainz Sr. Dalla candidatura.
Il Confine Etico:
L’era Ben Sulayem ha scambiato la chiarezza e l’assetto democratico con una stabilità finanziaria basata sulla dominazione incontrastata. È il modus operandi di chi si sente superiore alle norme e
agisce con concentrazione autocratica. La credibilità della FIA è stata compromessa dalle accuse di interferenze sui risultati di gara, come l’indagine per il caso Alonso (secondo la quale MBS avrebbe presumibilmente tentato di annullare una penalità di 10 secondi inflitta al pilota nel 2023), ma è sul piano etico che si è consumato il contrasto più acceso con la star del paddock e il campione più vincente della storia della F1, Lewis Hamilton. Questo conflitto non appare solo come una semplice disputa tra un pilota ed il presidente ma lo scontro tra il vecchio e il nuovo volto dello sport.
Qualche anno fa, infatti, fu espressa la direttiva che vietava ai piloti di indossare piercing e collane, apparentemente legata alla sicurezza, in realtà il classico esercizio di potere meschino. L’ossessione per il controllo dell’immagine personale dei piloti, portata avanti con l’intransigenza di un regime, ha trovato in Hamilton l’unico a sfidarla apertamente, definendola una “cosa così piccola” e “inutile” che distrae dai problemi reali dello sport.
Una polemica ancora più grave è esplosa quando Ben Sulayem, commentando il linguaggio scurrile nei team radio, si è lanciato in un paragone colmo di pregiudizio:
“Dobbiamo differenziare il nostro sport — il motorsport — dalla solita musica rap. Noi non siamo rapper, sapete. Loro dicono la parola con la ‘C’ quante volte al minuto? Noi non siamo così. Quelli sono loro e noi siamo [noi].”
Lewis Hamilton, sette volte campione del mondo e voce più influente per l’inclusività nello sport, non ha trattenuto la critica, puntando dritto al punto del problema che da sempre gli è stato a cuore:
“Dicendo ‘rapper’ è molto stereotipato. Se ci pensi, la maggior parte dei rapper sono neri, quindi è come dire: ‘Noi non siamo come loro’. Penso che la scelta di parole sia stata sbagliata e che ci sia stato un elemento razziale”, pur ponendosi in accordo sull’intento di eliminare le parole forti dalle radio.
È disarmante osservare come il leader dell’organo che dovrebbe promuovere la diversità e l’integrità si lasci andare a generalizzazioni cariche di stereotipi culturali. Questo non è solo un errore di comunicazione; è l’evidenza di una mentalità che vede il motorsport come un club esclusivo, rigidamente separato da culture popolari e, implicitamente, dalla diversità etnica che la Formula 1 cerca faticosamente di abbracciare.
L’arroganza del potere si è manifestata anche in questo rifiuto culturale, prima ancora che nella gestione finanziaria.
“Non È Affar Vostro”
Infine, il massimo dell’arroganza è avvenuto durante il Grand Prix Drivers’ Association (GPDA), quando è stata chiesta maggiore chiarezza sulla gestione della FIA e su come venivano spesi i soldi delle multe. La risposta di Ben Sulayem è stata severa: “Con tutto il rispetto, sono un pilota e rispetto i piloti, ma come gestiamo la FIA non è affar loro”. Questo rifiuto categorico del dialogo e della trasparenza con gli attori principali del campionato è la prova definitiva di una leadership autocratica che esige obbedienza e non ammette critiche.
Epilogo
Il secondo mandato di Mohammed Ben Sulayem si apre con un paradosso amarissimo: ha risanato le casse della FIA con una disciplina ammirevole, ma ha svuotato l’organizzazione della sua anima più pura: l’integrità inattaccabile. Questa rielezione, ottenuta con la complicità di regolamenti costruiti su misura, non è la vittoria dello sport, ma l’ennesima vittoria della politica sporca sulla democrazia. La frustrazione è profonda nel capire che, anche in un ambiente teoricamente meritocratico come la corsa, la politica ha sempre l’ultima parola.
E mentre osserviamo il premio di campione del mondo assegnato la scorsa settimana a Lando Norris che ha disputato una stagione in crescendo, resta la domanda: quanto tempo ci vorrà prima che questo stile di comando totalitario soffochi completamente la vera emozione della Formula 1?

