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I Classici da rivedere #16 I due funerali di Harry Lime – Il terzo uomo (C.Reed, 1949)

del prof. Lucio Celot

Quante cose non sappiamo sulle persone,

comprese quelle che amiamo…

cose buone, cose cattive.

Bisogna fare posto anche a loro

(Anna Schmidt)

Il terzo uomo è stato scritto

per essere visto, non per essere letto.

A dirla tutta, il film è meglio del romanzo,

perché in questo caso ne rappresenta lo stadio conclusivo

(Graham Greene)

Nel rinnovato clima di guerra fredda tra Russia e USA (l’estate scorsa abbiamo assistito ad un massiccio scambio di prigionieri come non si vedeva dal secondo dopoguerra), rileggere il romanzo di Greene e rivedere la versione cinematografica di Reed, Palma d’Oro a Cannes nel 1949 con l’interpretazione dell’impareggiabile Orson Welles, è un buon modo per rituffarci nelle atmosfere cupe e angosciose di un’Europa che aveva esaurito la propria centralità nel mondo e doveva lasciare spazio ad un nuovo equilibrio, quello tra le due superpotenze che avrebbero condizionato per mezzo secolo la storia del pianeta.

Nel 1948, l’anno in cui si svolge la vicenda, Vienna, la “scalcagnata capitale della scalcagnata Europa”, è divisa in quattro zone controllate da russi, americani, inglesi e francesi; la innere stadt, la città interna (quella del Ring, per intenderci), è invece gestita a turno per un mese da ciascuna potenza. È questa situazione complessa e gravida di possibili conseguenze politico-militari che Greene, insieme al produttore Korda, vuole portare sullo schermo. Narrata in prima persona da uno dei personaggi, il colonnello della polizia inglese Calloway (Trevor Howard), la storia è una squallida vicenda di contrabbando di penicillina che vede coinvolti il misterioso Harry Lime (Orson Welles), che è morto (almeno, così pare) investito da un’auto sulla strada davanti a casa sua, un medico compiacente e un corrotto funzionario rumeno (nel romanzo è, invece, americano). Il protagonista della storia è Holly Martins (Joseph Cotten), uno scrittorucolo di western che viene invitato dallo stesso Lime a Vienna probabilmente per essere coinvolto nel losco traffico: i due sono amici di vecchia data, e quando Martins, dopo avere assistito al funerale dell’amico, ascolta alcune contraddittorie versioni circa il presunto incidente, inizia a indagare sulla morte di Lime con l’aiuto di Anna (Alida Valli), una profuga cecoslovacca ricercata dai russi, la donna con cui Lime aveva una relazione (e di cui Martins si innamora durante la sua permanenza nella città). Come in ogni noir e spy-story che si rispetti nulla è come appare; tanto il disilluso Martins quanto Anna capiranno di essere solo delle pedine nel malvagio e cinico gioco di Lime, che si concluderà tragicamente nel sottosuolo di Vienna.

            Come per L’americano tranquillo, Greene scrive (e Reed dirige) una storia di amicizia tradita: Martins ha una forma di venerazione per Lime che risale ai tempi della scuola; arriva quasi a colpire Calloway quando, appena giunto a Vienna, questi gli rivela la vera natura delle azioni dell’amico; dovrà convincersi, suo malgrado, che Lime è un criminale e sarà proprio la progressiva cancellazione di questo profondo sentimento di amicizia che lo convincerà a collaborare con la polizia di Vienna. Lime, che compare a metà film e ha il volto e l’espressione luciferina di Orson Welles, è colpevole di un delitto contro l’umanità: la sua avidità senza fine lo porta a sofisticare le fiale di penicillina (che vende di contrabbando) causando, così, morti e malattie soprattutto tra i bambini. Welles, che conosceva bene Shakespeare, conferisce a Lime proprio quella “grandezza nella malvagità” che è tipica dei personaggi del Bardo (due tra tutti, Macbeth e Riccardo III); il cinismo e il sarcasmo con cui dalla ruota panoramica del Prater illustra a Martins la sua filosofia di vita (gli uomini, dall’alto, appaiono come dei puntini insignificanti) ne fanno un personaggio degno del Raskolnikov di Dostoevskij, al di sopra della giustizia, della morale e al di là del bene e del male. Celebre la battuta di Lime, inserita dallo stesso Welles nel copione, sulla funzione che ha la violenza nella Storia: in Italia, sotto i Borgia, hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni d’amore fraterno, democrazia e pace, cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù.

            Il bianco e nero della fotografia (premiata con l’Oscar) fa il resto: Vienna è una città livida, cupa, piovosa, i cui cittadini si ingegnano per sopravvivere dopo la tragedia della guerra; uomini e donne si danno da fare in tanti piccoli e grandi traffici per cercare una via d’uscita dalle terribili condizioni, fisiche e morali, del dopoguerra; gli stessi militari che dovrebbero assicurare e riportare l’ordine sono solo dei burocrati impotenti e privi di ogni empatia. Reed e il direttore della fotografia “girano” Vienna tutta in esterni, facendo propria la lezione del giovane neorealismo italiano; e tutta l’ultima parte del film, come nel romanzo, si svolge nel ventre della città, più precisamente lungo il labirinto della rete fognaria in cui Lime tenta l’estrema via di fuga: Reed utilizza al meglio la particolare location con inquadrature sghembe e giochi di ombre allungate e deformate in omaggio anche al cinema espressionista tedesco che, sul male e sulla sua insondabilità, aveva costruito capolavori come Nosferatu di Murnau e Il gabinetto del dottor Caligari di Wiene; infine, la colonna sonora di Anton Karas con la sua zitara, una delle più famose dell’intera storia del cinema, ha contribuito non poco al successo del film. Che, come ebbe modo di dire lo stesso Greene, “stavolta è anche meglio del libro”…

Il terzo uomo (The third man)

Regia: Carol Reed

Distribuzione: UK 1949 (b/n, 104’)

Il libro:

G.Greene, Il terzo uomo, Sellerio 2021 (ed.or. 1950)

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