Donne (toste) in lotta per la verità – Unbelievable (USA, 2019)
del prof. Lucio Celot
Nel 2016 un’inchiesta giornalistica dal titolo Un unbelievable story of rape si aggiudicò il premio Pulitzer per il giornalismo investigativo e dall’articolo fu poi tratto il libro A false report: vi si racconta la storia della diciottenne Marie, ragazza dal vissuto difficile, passata da una famiglia affidataria all’altra, che nella cittadina di Lynwood, nello stato di Washington, denuncia di essere stata vittima di uno stupro. L’aggressore l’avrebbe sorpresa nel sonno e abusato ripetutamente di lei; poi, fatta sparire qualunque traccia di DNA dalla stanza della ragazza, si sarebbe dileguato. Costretta a rivivere più volte il trauma – prima al poliziotto che raccoglie la testimonianza, poi ai due detective che la interrogano, poi ai medici in ospedale, Marie offre una versione dei fatti confusa e contraddittoria; agli occhi dei due detective (maschi) che seguono il caso la ragazza appare non del tutto convincente; persino l’ultima madre affidataria esprime i suoi dubbi agli investigatori evidenziando il bisogno di attenzione che Marie ha sempre manifestato fin da bambina. Minacciata di essere sottoposta alla prova del poligrafo (la macchina della verità), che conferirebbe pieno valore legale alle sue dichiarazioni, Marie ritratta la testimonianza e dichiara di essersi inventata tutto: viene denunciata, processata e riconosciuta colpevole dal tribunale. Abbandonata da tutti, anche dai pochi amici della comunità in cui vive, perde il lavoro e il diritto all’alloggio, rischiando di precipitare nella spirale dell’alcol e della droga.
La miniserie targata Netflix, molto fedele alla vicenda e a quanto raccontato nel libro, non si limita a seguire l’odissea di Marie, che nella finzione si colloca nel 2008, ma racconta anche l’autentica indagine parallela che due detective (donne) del Colorado, i cui nomi vengono cambiati in Karen Duvall e Grace Rasmussen, svolgono tre anni dopo, nel 2011, su alcuni stupri che ricalcano esattamente il modus operandi di quello di Marie. Il problema è che il sistema federale americano rende molto complicata la possibilità di incrociare i dati investigativi tra uno stato e l’altro e, dunque, le due detective sono del tutto all’oscuro dei fatti accaduti tre anni prima: saranno la loro tenacia e ostinazione, insieme alla collaborazione di una squadra determinata a risolvere il caso, a chiudere la partita con lo stupratore. Solo al termine delle indagini verranno a conoscenza della storia di Marie.
Una crime story tutta al femminile, scritta e prodotta da Susannah Grant (candidata all’Oscar nel 2001 per Erin Brokovich, altra storia vera di una donna in lotta per la verità), con tre attrici in stato di grazia che rappresentano con credibilità e senza spettacolarismi altrettanti modi di porsi di fronte alla più efferata e odiosa forma di violenza contro la donna. La scelta in sede di script di rispettare i fatti e di non fare incontrare le due detective con Marie nell’arco di tutta la vicenda, cosa che avrebbe senz’altro dato una svolta alle indagini (c’è solo una telefonata finale tra Marie e Karen), rafforza la tesi di fondo: le donne sono spesso lasciate sole quando hanno il coraggio di denunciare una violenza, tanto più in un mondo in cui le istituzioni e le forze dell’ordine sono gestite e amministrate esclusivamente da uomini.
Kaytlin Dever (vista più di recente anche in Dopesick, qui la recensione su Pausa Caffè) è bravissima nell’impersonare Marie, sempre credibile e mai eccessiva nel rappresentare la complessità dei sentimenti di una ragazza violata e non creduta: rabbia, rassegnazione, delusione, desiderio di dimenticare e nello stesso tempo una ferrea volontà di giustizia e risarcimento (non solo materiale) che le offrirà la possibilità di una nuova vita; Merritt Wever e Toni Collette sono altrettanto perfette nel costituire una coppia di investigatrici tra loro diverse e complementari già nella fisicità e nel linguaggio del corpo: la dolcezza dolente del volto di Karen fa da contraltare al fisico asciutto e nervoso di Grace; i tailleur-pantaloni della prima fanno a botte con i jeans attillati e le camicie maschili della collega; tanto empatica, tenera, sensibile e materna Karen quanto sbrigativa, a tratti scostante e spigolosa la scattante Grace: entrambe, però, mosse dalla determinazione di dare un volto allo stupratore seriale.
Unbelievable segue dunque due percorsi paralleli, che praticamente s’incrociano solo nelle battute finali: quello di Marie, una storia di giustizia e verità negate, di solitudine esistenziale, mette il dito nella piaga sempre troppo aperta della violenza sulle donne, evidenziando quanto il sistema investigativo e giuridico americano sia ancora molto lontano dall’assicurare piena assistenza alle vittime di stupro; quello di Grace e Karen è invece il racconto “classico” di un’indagine che procede secondo i ritmi della routine professionale, con i suoi momenti di stanca, di pessimismo, le illuminazioni improvvise, le intuizioni a volte efficaci a volte no, la dimensione affettiva e personale che si incrocia con quella pubblica. La relazione che si stabilisce tra le due detective, dopo un inizio di collaborazione piuttosto burrascoso, è forse quello che più rimane impresso nello spettatore dopo la visione di Unbelievable: la profonda complicità tra due donne che non hanno mollato nemmeno per un secondo, che si salutano senza trionfalismi al termine dell’indagine, che si sentono gratificate non dai complimenti dei loro colleghi e superiori ma dalla telefonata di una ventenne a cui hanno ridato speranza e un nuovo orizzonte da raggiungere. Da non perdere assolutamente…
Unbelievable (id.), USA 2019
Stagione 1 (ep.1-8)
Distribuzione: Netflix