‘Cultura’ della guerra e ‘resistenza’ della pace
di Pietro Aldo Mocerino (IIIG)
La storia si ripete, purtroppo. La recente invasione del Libano da parte di Israele non ha fatto altro che rinnovare un conflitto vecchio di decenni. Da quando nel 1948 la guerra arabo-israeliana ha sconvolto ed insanguinato la Palestina, teatro delle opposte rivendicazioni da parte di Israele – che riteneva che il territorio rappresentasse la patria storica del popolo ebraico – e dei Palestinesi, sostenuti dai Paesi arabi vicini, incluso il Libano. Molti profughi palestinesi si spostarono proprio verso il Libano, che dal canto suo, circa venti anni dopo, richiese la restituzione di uno spazio situato sulle alture del Golan, ricco di risorse idriche. La rivendicazione libanese fu subito sostenuta da Hezbollah, milizia paramilitare libanese di ispirazione integralista, ed è quasi superfluo dire che le ragioni – per meglio dire, i pretesti – di ispirazione religiosa hanno prodotto l’effetto di inasprire ancora di più il conflitto. Come se non bastasse, con gli anni ad Hezbollah si è aggiunto Hamas, movimento fondamentalista palestinese, operante soprattutto nella striscia di Gaza, allo scopo di liberarla dall’occupazione israeliana.
Dopo il ritiro di Israele nel 2000, Hezbollah si è radicato ulteriormente nel Libano e, approfittando dell’attacco terroristico di Hamas ad Israele nell’ottobre dell’anno scorso, si è aggiunto nel far guerra allo stato israeliano. La recente uccisione di Nasrallah, leader di Hezbollah, nel settembre scorso ha provocato la ‘minaccia- promessa’ di Hezbollah di una pronta vendetta. Insomma, nulla fa pensare che la guerra possa cessare, anzi. In tutto questo, io stesso, come tanti altri, mi chiedo quale potrebbe mai essere la soluzione di un conflitto che non è solo militare e politico, ma anche ideologico. Perché ascoltando i dibattiti in televisione o leggendo i commenti sul web, la guerra tra Israele da un lato e il mondo arabo (non solo il Libano) dall’altro si sposta sul piano delle idee, delle visioni del mondo. Quella occidentale, che farebbe della democrazia il proprio cardine, e quella araba, forte del sostegno da parte del credo islamico, specie quello radicale ed integralista.
Chi è filoisraeliano rischia, solo per questo, di passare per persecutore del martoriato popolo palestinese; chi, all’opposto, sostiene la Palestina, appare antisemita. Ma la vera alternativa non è questa, almeno credo. Quando l’anno scorso, proprio su Pausa Caffè, presentai una riflessione sulla guerra israelo-palestinese, ipotizzando un confronto di carattere filosofico-religioso che schiudesse una via per la pace, un professore, bonariamente, mi fece notare che ero utopista, sognatore. Mi chiedo se non avesse ragione lui, se perfino a scuola non siamo quasi ‘costretti’ a pensare che la dura realtà sia quella di una guerra che ciclicamente rinasce dalle ceneri delle precedenti. Perché, studiando, abbiamo appreso che “si vis pacem, para bellum”, “se vuoi la pace, prepara la guerra”, motto ripreso da Cicerone stesso; o, ancora, che la guerra è “la sola igiene del mondo”, come sosteneva Marinetti o un “lavacro di sangue” che avrebbe rigenerato l’umanità, secondo D’Annunzio.
Fortunatamente, che la guerra sia una necessità inevitabile è una verità solo apparente, se è vero che lo stesso Cicerone, scrivendo ad Attico, ammetteva di preferire una pace, seppur ingiusta, ad una guerra giustissima e che Einstein affermava di non sapere con quali armi si sarebbe combattuta la terza guerra mondiale, ma che per la quarta sarebbero serviti “bastoni e pietre”, accennando, nemmeno tanto velatamente, al regresso dell’umanità. Ed è altrettanto vero che esiste una cultura della “non violenza”, testimoniata con la loro vita da Gandhi e Martin Luther King. Studiamo anche questo e, nel nostro piccolo, sta a noi decidere che vita vivere, per alimentare, con la nostra scelta, la cultura della guerra o della pace. Anche perché, tra i tantissimi testi che ci vien chiesto di studiare, c’è la stessa Costituzione italiana, che all’art. 11 afferma che “l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, perché la guerra non risolve i problemi, anzi, li peggiora creandone di nuovi. Credere questo può rappresentare, magari, il primo passo per una nuova ‘resistenza’ alla cultura della guerra.
Insomma, oltre le marce per la pace nelle piazze, tra i banchi di scuola dobbiamo anche noi fare la nostra scelta, decidere da quale parte stare, pure nei nostri rapporti quotidiani, magari adoperando una bussola, come la Costituzione, che si presenta più ragionevole, perché la cultura della guerra è regolata dalle leggi folli di una matematica feroce, che moltiplica i nemici, divide i popoli, sottrae risorse e aggiunge morti ai morti. Forse, questo ragionamento è meno utopistico e più concreto di quello che ho immaginato circa un anno fa o, forse, quest’ultimo si potrà realizzare solo se in ogni parte del mondo, proprio grazie alla ‘resistenza’ della pace, crescerà una nuova generazione di cittadini.