Django, ritratto malinconico del pistolero al crepuscolo – Django (Italia-Francia, 2023)
del prof. Lucio Celot
La vendetta, la colpa, l’utopia: sono i tre ingredienti che hanno dato nuova linfa ad un personaggio leggendario del cinema western, quel Django che, partorito dalla mente di Sergio Corbucci a metà degli anni ’60, è rinato sugli schermi grazie a Quentin Tarantino ed è arrivato a febbraio 2023 su Sky, protagonista di una serie di produzione italo-francese curata e diretta dalla nostra Francesca Comencini.
È una buona occasione per andarsi a rivedere qualche pietra miliare dello spaghetti-western, il western all’italiana di cui Sergio Leone fu il maestro indiscusso con la sua “Trilogia del dollaro” (che, tra l’altro, fu il trampolino di lancio della lunghissima carriera di Clint Estwood); ma senza dimenticarci anche dell’”altro Sergio”, come lo chiama Quentin Tarantino, cioè Sergio Corbucci, “il secondo migliore regista di western all’italiana”, che lo stesso Tarantino omaggia in un bel documentario di Steve Della Casa del 2021, al momento disponibile su Sky, nel quale il regista americano analizza la “poetica western” di Corbucci in un’ottica politica, quella della critica ad ogni forma di fascismo e di oppressione autoritaria. Non solo Django (1966), ma anche Il Grande Silenzio (1968), Il Mercenario (1968), Vamos a Matar Compañeros (1970) costituiscono una riflessione, attraverso il cinema di genere, che corre parallela ai drammatici anni in cui le contestazioni, studentesche prima e operaie in seguito, sfociarono nella scelta dell’uso della violenza come arma di ribellione al sistema.
Ford aveva John Wayne, Leone Clint Eastwood, io ho Franco Nero: così, con grande autoironia, Corbucci racconta il sodalizio con il suo attore-feticcio che, peraltro, anche Tarantino ha voluto in un cameo in Django Unchained e a cui la stessa Comencini, nella serie tv, ha affidato un ruolo secondario. Il Django di Corbucci è un revenge movie, una storia di vendetta che ha in Franco Nero il protagonista assoluto, il classico “straniero senza nome” che fa la sua misteriosa e improvvisa apparizione in una cittadina desolata e fangosa, abbandonata dagli uomini e teatro di uno scontro tra rivoluzionari messicani da un lato e un losco e sadico sfruttatore di prostitute dall’altro. Violento fino all’inverosimile (almeno per l’epoca), il film è passato alla storia dello spaghetti-western per le sequenze in cui Django falcia con una mitragliatrice che custodisce in una bara decine e decine di villains senza minimamente scomporsi.
Tarantino sceglie di ambientare la sua rivisitazione del personaggio non all’indomani della guerra di secessione, come l’originale, ma qualche anno prima, nel 1858; non solo, ma Django (Jamie Foxx) è un nero cui il nuovo datore di lavoro, il dottor Schulz (uno strepitoso Christoph Waltz), dona la libertà in cambio di aiuto nella caccia ai criminali su cui pende una taglia. Lo stravolgimento totale del contesto e del character non deve però stupire, considerata la fama di rivoluzionario del cinema dell’enfant prodige Tarantino; e l’uso ripetuto, “scandaloso” e politically incorrect dell’epiteto nigger in bocca ai personaggi, tanto che Spike Lee si è sempre rifiutato di vedere il film, è solo uno dei consueti armamentari postmoderni di cui il regista si serve per decostruire il cinema classico: in Django, molto più che negli altri film, non si contano le citazioni e gli omaggi cinefili, le ibridazioni di generi (western e Wagner, tanto per dirne una) nonché le sequenze pulp con la loro esasperata violenza (il finale, con la distruzione pressoché completa del set, è un tripudio di sangue e corpi bucherellati dai proiettili). Django, insomma, è la summa dell’immaginario cinematografico di serie B con cui QT è cresciuto e di cui si è nutrita la sua vocazione di regista e sceneggiatore.
Come si diceva all’inizio, al classico tema della vendetta il Django della Comencini aggiunge anche quelli della colpa, dell’espiazione e dell’utopia: la possibilità di dilatare il tempo del racconto in una serie tv consente anche di approfondire e di dare maggiore spessore psicologico ai personaggi e di dare loro un passato che renda comprensibili allo spettatore le motivazioni del loro agire.
Qui Django è un ex combattente confederato che sette anni dopo la guerra civile è alla ricerca della propria figlia Sarah, unica sopravvissuta allo sterminio della famiglia avvenuto proprio mentre egli era lontano a combattere contro il Nord. Sarah è ora la compagna di John Ellis, un uomo di colore che ha fondato New Babylon, una comunità dove i reietti della società puritana e benpensante tentano di costruire l’utopia dell’uguaglianza e della tolleranza; loro nemica giurata è Elisabeth, “La Signora”, una tormentata ma cattivissima Noomi Rapace che, in nome della moralità e Bibbia alla mano, cercherà in tutti i modi di distruggere il “paradiso in terra” di John Ellis. Scopriremo che gli intrecci del destino legano le vite dei quattro protagonisti in modi inaspettati e sorprendenti: Django e John, entrambi mossi dal sentimento della vendetta, vivono con un enorme senso di colpa da scontare, Elisabeth si è rifugiata nelle fede fanatica per dimenticare un amore proibito, Sarah deve ricostruire un rapporto con un padre che l’ha abbandonata da bambina.
Django non ha nulla del pistolero solitario e cinico di Corbucci; anzi, è restio a uccidere e lo fa solo quando non può farne a meno: durante la guerra civile e nel breve periodo di sbandamento in cui ha fatto parte di una posse, una banda di sadici cacciatori di scalpi, ha assistito ad atrocità sconvolgenti e non è più disposto a esercitare la violenza se non per difendersi. Anche lo showdown finale con l’antagonista, che non può mancare in un western che si rispetti, è, in fondo, sostituito dal precipitare degli eventi dopo la battaglia a New Babylon (in cui Django, come nel film di Corbucci, fa piazza pulita usando la mitragliatrice). Pistolero riluttante, padre rifiutato, ramingo inquieto, Django proseguirà per la propria strada abbandonando di nuovo la figlia dopo averla, però, finalmente ritrovata.
Sguardo triste, nascosto dalle falde del cappello perennemente abbassato sugli occhi, il Nostro non ha più nulla né della freddezza del modello originale né, tantomeno, della baldanza e sicurezza di sé ostentata dall’eroe tarantiniano; è, piuttosto, un Django malinconico, crepuscolare, consapevole di quanto il peso della colpa di scelte passate, dolorose ma necessarie, costituisca un fardello con cui, prima o dopo, bisogna fare i conti. Magari, davanti alle rive dell’oceano, limite estremo di un continente che continua a raccontarsi anche attraverso la rinascita di un genere che ha fatto la storia del cinema.
Django (id.), Italia-Francia 2023
Stagione 1 (ep.1-10)
Distribuzione: Sky Atlantic
Django (id.)
Regia: Sergio Corbucci
Distribuzione: Italia-Spagna 1966 (col., 88 min.)
Django Unchained (id.)
Regia: Quentin Tarantino
Distribuzione: USA 2012 (col., 165 min.)
Django & Django – Sergio Corbucci Unchained
Regia: Steve Della Casa
Distribuzione: Italia 2021 (doc., col., 97 min.). Disponibile su Sky