Fare filosofia o essere filosofi? Riflessioni su una meditazione di Nigel Warburton

di Pietro Aldo Mocerino (IIIG)

Ultimamente, per una verifica in classe di Italiano, ci è stato proposto un brano di Nigel Warburton, docente di Filosofia alla Open University di Oxford. Il ragionamento dell’autore, sviluppato in tre semplici passaggi, è partito da una domanda iniziale, sul perché studiare la filosofia. Materia ostica, specialmente per chi crede che, in un’epoca tecnologizzata come quella attuale, spendere tempo a farsi domande non sia altro che un esercizio astratto, non produttivo di risultati effettivamente utili, al punto che il filosofo è talvolta presentato come una persona in grado di districarsi tra le difficoltà di questioni quanto mai complesse, come quelle poste dal sistema di pensiero di maestri come Platone ed Aristotele, Kant ed Hegel, senza, però, essere capace di cuocere un uovo per sfamarsi.

Una caricatura severa, per non dire spietata, ma che rende alla perfezione l’idea del pregiudizio che accompagna chi si dedica allo studio di questa disciplina. D’altronde, ancora oggi si è soliti bollare una persona che pensa troppo come ‘filosofo’, con una vena dispregiativa che la dice tutta sulla presunta inadeguatezza di chi filosofeggia di fronte alla concretezza di una realtà in continua e rapida evoluzione, che richiede risposte immediate o, addirittura, urgenti. Eppure, qui si annida l’equivoco di fondo che sembra emergere dal secondo dei suddetti passaggi, dal momento che proprio la ricerca quasi spasmodica di soluzioni ai tanti problemi della realtà esige che essi siano esaminati con accuratezza, che ci si interroghi correttamente e si colgano gli aspetti essenziali di una questione, per affrontarli secondo una certa linea di pensiero. Che può variare in base al tipo di impostazione concettuale che si adotta, ma che, comunque, non può mancare. In sintesi, dinanzi agli interrogativi quotidiani ognuno può rispondere come preferisce, purché si ponga delle domande di senso e, in base ad esse, presenti una soluzione, tanto più ragionevole quanto più si è meditato sul problema.

Questo è l’esito conclusivo della disamina di Warburton, il terzo ed ultimo passaggio, che svela il compito autentico della filosofia, che non è solo quello di dare risposte, ma di imparare a riflettere su ogni aspetto della realtà, analizzando i pro ed i contro, adottando una linea da seguire e mettendola in pratica. Chiedendosi, ad esempio, se avesse ragione Hobbes col suo pessimistico “homo homini lupus” o se, invece, valesse la pena, nonostante tutto, di nutrire fiducia nel prossimo, come sosteneva Rousseau col suo “homo homini socius”.

Se così è, si comprende che, alla fine, più che fare filosofia, occorre decidere se essere filosofi, valorizzando quella ragione tipica dell’uomo, che magari è solo una “canna”, ma una “canna pensante”, come affermava Pascal. Perché questa è l’alternativa, scegliere se affogare nell’anonimato del ‘pensiero unico’ o se, all’opposto, assumere una posizione personale, critica, su qualsiasi questione, sia essa il senso dell’ultimo brano di Geolier o, piuttosto, il motivo per il quale, in una città come la nostra, ci si procura facilmente un’arma per usarla come argomento risolutivo di una discussione futile. Nell’epoca dell’apparenza dominante, degli ‘influencers’ e dei ‘tiktokers’, del ‘così fanno tutti’, sarebbe opportuno domandarsi se è davvero necessario che tutti facciano così, giusto, magari, per avere la possibilità di scegliere come essere e di non accettare la silenziosa e ‘divertente’ imposizione di modelli prestabiliti.

 

 

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