La moltitudine di ieri e di oggi
di Sabrina Parente (IIIA, a.s. 2020/2021)
“La sera avanti […] le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendio”. Questa frase scritta da Manzoni nel romanzo I promessi sposi per descrivere il tumulto di San Martino, esploso l’11 novembre 1628, colpisce ancora oggi per la sua estrema attualità e adattabilità al presente. Non sorprenderebbe, infatti, se queste stesse parole fossero state utilizzate per raccontare la protesta di Napoli, che ha avuto luogo il 23 ottobre 2020. La storia è un processo lineare, tuttavia, pur nella varietà e molteplicità delle situazioni, i meccanismi che la regolano, in quanto tipicamente umani, sono sempre gli stessi. Per questo, anche se a quattro secoli di distanza, è possibile classificare sia i fatti del 1628 che quelli recenti di Napoli come due rivolte di “fame” e di esasperazione. Anche il contesto storico-sociale è simile: una carestia nel primo caso, una pandemia nel secondo. Una natura soverchiante, malvagia, che mostra a sua volta l’animo malvagio dell’uomo. A Napoli come a Milano questa crisi ha portato a un lungo periodo di privazioni e patimenti, che hanno fatto nascere nel popolo, inteso come massa di individui, un malcontento inizialmente latente ma via via sempre più incontenibile. A esacerbare ancora di più gli animi, uno Stato incapace di far fronte alla situazione, che esclude dai suoi progetti politici le fasce più deboli della popolazione, riducendole al silenzio e all’impotenza.
Tuttavia, quello fra oppressi e oppressori non può essere definito banalmente come scontro di classe, poiché coinvolge trasversalmente diversi ceti sociali, finanche il ceto medio, che si sente ancor più colpito dalla crisi perché vede la propria condizione di privilegio e benessere sgretolarsi. A essere coinvolta nella protesta, ieri come oggi, è una “moltitudine male e ben vestita”. Ma la forza della collettività risiede proprio nel coinvolgimento di persone di diversa estrazione sociale, accomunate dall’urgenza di esprimere il medesimo disagio. Naturale valvola di sfogo di questo comune sentire è non a caso la rivolta, il tumulto, un moto del tutto irrazionale e spontaneo, che spesso risulta essere l’unico linguaggio possibile per chi non viene ascoltato. Questa forma di protesta viene contestata da molti che sostengono che attraverso la ribellione non si possano risolvere i problemi. Si fa portavoce di questa schiera lo stesso Manzoni, affermando che “la distruzione de’ frulloni e delle madie, la devastazione di forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane”.
In realtà è bene sottolineare come la rivolta si configuri più come un grido di denuncia, il cui obiettivo primario è proprio quello di portare alla luce criticità che invece si cerca di nascondere o insabbiare. Le modalità attraverso cui si esprime degenerano facilmente e, alle volte, inevitabilmente, nella violenza, come è successo nelle strade del capoluogo campano.
Anch’essa, però, va presa per quello che è in tutta la sua brutale verità, non come strumento per il raggiungimento di un fine, bensì come espressione necessaria della rabbia comune di un gruppo di oppressi. Fare questo tipo di analisi non vuol dire giustificare gli atti di violenza, ma significa semplicemente non fermarsi ad una prima lettura frettolosa delle vicende, e scavare fino a trovare la causa prima, il vero motore dell’agire.
Il grande rischio è che la violenza si tramuti in forza respingente, e che distolga lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema. Dopo i fatti di Napoli, ad esempio, il dibattito e l’attenzione dei media si sono orientati più sulle modalità d’azione discutibili di un gruppo di manifestanti, che sul profondo disagio alla base della protesta. Per questo è fondamentale ribadire come questa frangia costituisse soltanto una minoranza rispetto alla moltitudine scesa in piazza e che è proprio il carattere non organizzato della rivolta che consente agli approfittatori di turno di prendervi parte. Sono “uomini di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidirla di più”.
Ma focalizzarsi su questi ultimi per svilire la voce di migliaia di persone vuol dire cercare un pretesto, compiere un’azione centrifuga rispetto al problema denunciato.
Infatti, è vero che le azioni sbagliate fanno sempre più rumore, ma è chi non vuole alzare il proprio sguardo che si sofferma su di esse. Oggi questo fenomeno risulta essere sempre più diffuso e tristemente efficace. Oltre agli scontri di Napoli ne sono esempio il movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti e la rivolta antigovernativa che infiamma in Cile da ormai un anno. In entrambi i casi a scendere in piazza per manifestare sono persone che vivono in uno stato di subordinazione e sfruttamento, che hanno covato per lungo tempo la loro frustrazione che poi è esplosa inevitabilmente come un fiume in piena, “un torrente -scrive Manzoni- che penetra per tutti i varchi”. Questo stesso stato d’animo è appunto condiviso da tutte quelle frange colpite dalla crisi economica causata dalla pandemia, che sono state messe nelle condizioni di preoccuparsi non solo della propria salute, ma anche del proprio lavoro, del proprio futuro. Da questo punto di vista la Storia, che è sempre contemporanea, ci insegna che alle volte l’insurrezione popolare è l’unico mezzo possibile per aprire la strada al cambiamento e riuscire ad abbattere un sistema oppressivo o comunque iniquo. La ribellione, che non deve necessariamente esprimersi attraverso la più becera violenza, è allo stesso tempo una delle armi più potenti della collettività che non può essere ripudiata.
La speranza, infatti, è che dal “bianco polverio che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia” possa poi emergere una realtà più luminosa e giusta, in cui non ci sono più né oppressi né oppressori.
QUESTA RAGAZZA è L’ESEMPLIFICAZIONE DI COME LE CONOSCENZE DIVENTINO COMPETENZE SE AL SERVIZIO DI UNO SPIRITO CRITICO, DI UNA MENTE ANALITICA E DI UN ANIMO APERTO. PER NON PARLARE DELLO STILE VERAMENTE MATURO. GRAZIE
Brava Sabrina. Il tuo articolo denota sensibilità, profondità di pensiero , capacità di analisi della realtà e di rielaborazione critica . Mi fa credere ancora nel valore dell’insegnamento e dello studio attento che trasforma il sapere in nuovo pensiero.