50 anni di ” Wish you were here”
del Prof. Lucio Celot
Continua a splendere, Pazzo Diamante!
#splendidicinquantenni

Pink Floyd, Wish You Were Here (1975)
La prima sequenza di “Shine on You Crazy Diamond” e “Wish You Were Here”
sono quanto di più struggente sia uscito dal genio dei PF
(M.Mari, Rosso Floyd)
“Wish You Were Here” può essere considerato
come uno dei brani che ha scolpito nella roccia
il nome dei PF passando per le antenne
di ogni stazione radiofonica del pianeta
(The Lunatics, PF. Il fiume infinito)
È il mio omaggio a lui [Syd Barrett]
e una mia affettuosa espressione di tristezza;
ma esprime anche la mia ammirazione per il suo talento
e la pena per l’amico perduto
(Roger Waters)
Aleggia in tutta la produzione dei Pink Floyd, almeno fino a The Wall, la ricorrente e sotterranea presenza di un’assenza, quella di Syd Barrett, fondatore del gruppo e autore dei testi dei primi due album, uno spettro che si aggira non solo dalle parti degli studi di Abbey Road, ma anche dentro la testa di Roger Waters, amico d’infanzia di Barrett, e dentro la coscienza di Nick Mason e Richard Wright: come è noto, verso la fine dei ’60 Barrett iniziò a dare di matto a causa dell’uso spropositato di LSD, fu allontanato dal gruppo (con grande dolore di Waters e un sospiro di sollievo degli altri due) e sostituito alla chitarra da David Gilmour. Continuò, tra alti e bassi, depressione e problemi fisici, la sua attività di compositore (pubblicò due album da solista) e di pittore, fino a spegnersi quasi del tutto dimenticato nel 2006 (al funerale non si presentò nessuno della band). Oggi viene considerato uno dei compositori più originali della storia del rock e della “cultura acida” e psichedelica della swinging London.
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Dopo il successo planetario di The Dark Side of the Moon i Pink Floyd faticarono parecchio a ritrovare la coesione e la concentrazione necessarie per un nuovo disco: distratti da vicende personali e tour in America, si rimisero al lavoro nel gennaio del 1975 partendo da alcuni brani composti e provati in tour nell’anno precedente, mixarono il disco durante l’estate non senza discussioni e contrasti sulla versione definitiva dei singoli brani e, infine, Wish You Were Here uscì sul mercato in autunno. Sei milioni di copie vendute nel primo anno, la EMI in difficoltà per stampare le copie richieste in tutto il mondo, un altro successo planetario: la band, felice ma esaurita, si prese un periodo di pausa lontano da riflettori e concerti.
Come il precedente, anche questo è un album-concept che ruota attorno al tema dell’alienazione, quella dell’artista stritolato dai meccanismi dell’industria discografica. La schizofrenia di Barrett trovò terreno fertile non solo nelle sostanze psicotrope con cui egli amava “viaggiare” ma anche nel disagio psicologico provocato dal successo improvviso e dalle pressioni dei produttori e degli stessi musicisti della band che gli chiedevano di produrre a raffica testi e musiche. Non è escluso che il tracollo di Barrett vada imputato anche ai meccanismi perversi dell’industria culturale cui il giovane compositore era del tutto estraneo e verso i quali assumeva atteggiamenti provocatoriamente ribelli.

Nata dalla chitarra di Gilmour, la suite Shine On You Crazy Diamond, costituita da nove parti, viene divisa in due, le prime cinque parti in apertura, le ultime quattro in chiusura del disco. Tributo a Barrett, il Diamante Pazzo del testo, è l’omaggio affettuoso dei Pink Floyd al loro fondatore (Shine on you crazy diamond/You were caught on the cross fire of childhood and stardom/blown on the steel breeze), un brano intriso di malinconia in cui le parole painter e piper fanno chiaramente riferimento alle vicende personali di Barrett (che dipingeva e veniva definito “Il Pifferaio”); oltre alla chitarra solista di Gilmour, sono i sintetizzatori di Wright, usati per la prima volta in modo così massiccio, a costituire la parte portante del brano. Segue un dittico che costituisce un attacco tagliente ai discografici che spremono fino allo stremo i loro artisti per poi lasciarli nel dimenticatoio quando non producono più profitto: il primo brano è Welcome To The Machine, che già dal titolo rimanda alla catena di montaggio dell’industria culturale e alle sue regole spietate. È la stessa macchina che ha divorato e distrutto Syd Barrett, lo ha attirato a sé con promesse di successo e fama per poi abbandonarlo al suo destino (You dreamed of a big star/he played a mean guitar/he always ate in the Steak Bar/he loved to drive in his Jaguar/So welcome to the machine). Anche qui Wright fa grande uso di sintetizzatori, a rimarcare l’atmosfera disumanizzante e anempatica della “macchina”. Il secondo brano del dittico è Have a Cigar, il benevolo e ingannevole invito del discografico di turno a sedersi e a prendere un sigaro, mettersi a proprio agio e ascoltare le promesse ipocrite di successo e gloria eterna: You’re gonna go far/You’re gonna fly high, you’re never gonna die, you’re gonna make if you try/They’re gonna love you. Il sarcasmo e la vis polemica di Waters sono, qui, secondi solo ai testi che scriverà per Animals (qui la recensione di Pausacaffè). La chiusura del brano, con il volume che improvvisamente si abbassa e si confonde con i rumori di una radio per poi glissare su alcune note della IV sinfonia di Tchaikovsky, introduce la chitarra acustica di Wish You Were Here, forse il brano in assoluto più conosciuto del gruppo, quello in cui, più ancora che nella suite, viene meglio espresso il senso di perdita e di vuoto legato alla figura di Barrett: How I wish/how I wish you were here/We’re just two lost souls/swimming in a fish bowl/year after year…/wish you were here e qui, in questi versi che cantano la solitudine e il rimpianto di un legame che non c’è più, la figura di Barrett assume una valenza universale, Wish You Were Here è una canzone d’amore tout-court. E la 12 corde di Gilmour fa il resto, rendendo il brano indimenticabile e immortale. La folata di vento e il finale solenne delle tastiere di Wright della seconda e ultima parte della suite, con tanto di citazione di See Emily Play, primo singolo della band scritto da Barrett, chiudono l’ennesimo bersaglio centrato in pieno dai Pink Floyd.
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Nella celebre copertina del disco due uomini in giacca e cravatta si stringono la mano, ma uno dei due è in preda alle fiamme: sta bruciando, proprio come Syd Barrett e tanti altri artisti che come lui non hanno saputo opporre resistenza alle logiche dello star system. O magari l’uomo che brucia era, in quel lontano 1975, figura dei tempi che sarebbero venuti, cattivi e cinici: year after year/running over the same old ground/What have we found?/The same old fears, come tutte le grandi opere d’arte visionarie Wish You Were Here ha saputo guardare avanti e dirci cosa saremmo diventati. E non è un bel vedere…
Pink Floyd, Wish You Were Here, EMI 1975
Sono state utilizzate le seguenti fonti:
The Lunatics, Pink Floyd. Il fiume infinito. Le storie dietro le canzoni, Giunti 2023
N.Mason, Inside Out. La prima autobiografia dei Pink Floyd, EPC 2018
M.Mari, Rosso Floyd, Einaudi 2010

