James Ballard: sfuggire al biopotere

del Prof. Lucio Celot

Ho riletto il racconto lungo di Ballard, Un gioco da bambini, in margine e a complemento della Volontà di sapere di Foucault, in cui, come è noto, fa per la prima volta la comparsa, nel lessico del francese, il termine bio-politica, successivamente approfondito e sviluppato dallo stesso pensatore. Rispetto alla sovranità medievale-moderna, metaforizzata dall’immagine della piramide in cui il potere si diffonde dall’alto al basso, il biopotere foucaultiano è inteso come una rete che penetra capillarmente e si diffonde in ogni aspetto del bios, del vivente inteso non più come semplice soggetto giuridico, ma come vita nella sua totalità. Al vecchio diritto di vita e morte del sovrano, si sostituisce un potere che si fa carico di gestire e promuovere la vita attraverso una serie di saperi e procedure di regolazione della massa sociale che vanno dalla demografia alla sanità pubblica, dalle assicurazioni sul lavoro al controllo delle nascite, dalla medicina sociale agli studi sull’habitat e via di seguito. Questo biopotere non disdegna, peraltro, di utilizzare anche delle tecniche di controllo disciplinari, cioè rivolte al corpo individuale e al suo assoggettamento: ciò che avviene in strutture come la scuola, la fabbrica, la caserma, l’ospedale o il manicomio. Il biopotere mira ad un corpo sociale sano, operoso, non dedito a sprechi di energie dispendiosi e improduttivi; eventuali corpi infetti vanno espulsi ed è questo, secondo Foucault, il senso del “razzismo di stato” che nel novecento ha prodotto i genocidi.

E’ davvero “sano” l’individuo assoggettato attraverso queste discipline e queste tecnologie di potere? E’ davvero felice? Non desidera altro? La “medicalizzazione“ completa della sua esistenza non è invece una nuova forma di totalitarismo strisciante? Come reagire all’imposizione della “salute” di cui ha bisogno un mondo in cui domina la logica neoliberista di Milton Friedman e dei suoi accoliti?

Lo straordinario racconto di Ballard, uno dei massimi scrittori di sf sociologica del Novecento, getta uno sguardo dentro l’incubo biopolitico. Alla periferia di Londra si trova il Pangbourne Village, un comprensorio residenziale super lussuoso, abitato da famiglie della classe dirigente inglese: amministratori delegati, psichiatri di fama internazionale e professionisti ricchissimi si sono isolati dal resto del territorio in una vera e propria isola felice, circondata da una recinzione controllata da sistemi tecnologici affidabilissimi, i cui viali e ville sono monitorate h24 da telecamere a circuito chiuso. Il Village comprende anche centri sportivi e scuole private frequentate dai figli di questa élite genitoriale, ad un tempo anaffettiva e attentissima alla crescita sociale dei propri rampolli. Eppure, in questa oasi socialmente e architettonicamente corazzata, irrompe la violenza: in pochi minuti, 32 adulti, genitori, sorveglianti e personale di servizio, vengono massacrati e i loro figli spariscono nel nulla. Un mistero cui, dopo mesi di inutili indagini, dà risposta il dottor Greville, uno psichiatra che collabora come consulente con la polizia di Londra: a compiere il massacro sono stati proprio loro, i tredici ragazzi scomparsi.

“In un mondo totalmente sano, l’unica libertà consiste nella follia”: attraverso un’indagine che scava nelle abitudini e nelle stanze dei ragazzi, nell’organizzazione perfetta e quotidianamente scandita delle loro vite, nei rapporti apparentemente sereni e idilliaci con le famiglie, nella cura maniacale e ossessiva dei corpi attraverso l’attività sportiva, Greville scopre delle crepe nascoste che fungono da indizi certi: un libro di Piaget ridotto quasi a brandelli dalla punta di un coltello; una videocassetta che alterna a momenti sereni della vita nel Village immagini di corpi massacrati in scontri automobilistici o nelle fosse comuni naziste. Nessuno vuole credere a Greville, nemmeno quando la più piccola dei tredici assassini ricompare in evidente stato di shock e viene ricoverata in ospedale, salvo poi essere rapita e fatta nuovamente sparire da altri due adolescenti del gruppo che non esitano a sparare e uccidere pur di riuscire nell’incredibile impresa.

Greville non ha dubbi: torneranno. Torneranno quando ci saranno altre Madri che imporranno il loro eccesso di amore che non lascia respiro, quando altri Padri putativi offriranno tale e tanta sicurezza da non lasciare più alcun margine alla rivolta, alla contestazione, al parricidio. Il potere biopolitico ci invade, ci penetra, ci protegge e, quello che è peggio, non ne siamo solo attraversati: ne siamo noi stessi, nella molteplicità dei nostri rapporti sociali, punti di irradiazione. Il potere, ricorda ancora Foucault, non si conquista né lo si guadagna: il potere non è di proprietà di qualcuno a cui lo dobbiamo strappare; il potere è la rete di cui ognuno costituisce a suo modo un nodo, è una corrente che ci attraversa perennemente. L’attenzione del potere nei confronti della vita non è filantropia, non è una missione amorevole, gratuita e donativa: è controllo finalizzato al massimo rendimento delle potenzialità del bios, è una mega-macchina sociale (come scrive Luiano Gallino) organizzata in modo da considerare ogni singolo come funzione del tutto e nient’altro. I tredici giovani assassini non ci stanno, la loro follia è la trasposizione romanzesca delle lotte che le “moltitudini in marcia”, da Seattle fino agli Indignados e ai We Are 99% (ma Ballard ancora non lo sapeva, perché il racconto è del 1988) hanno movimentato gli anni ’00.

Sfidare il mondo che – solo apparentemente – ci ama e ha cura di noi: non è questione di ingratitudine, ma di sopravvivenza. Di noi, dei nostri corpi e della nostra dignità.

 

James Graham Ballard, Un gioco da bambini, Feltrinelli 2007

Il numero dedicato a Ballard di Quaderni d’Altri Tempi, con gli articoli di Fattori, Paura e Fucile, è qui.

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