Di fantasmi, scimmie redivive e pescigatto parlanti, ovvero: Boonmee e il mistero della vita e della morte – Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (A.Weerasethakul, 2010)
del prof. Lucio Celot
“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”: il celebre verso dell’Amleto shakesperiano riassume bene il senso profondo del film vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2010 (presidente di giuria, non a caso, Tim Burton) del visionario regista thailandese dal nome impronunciabile Apichatpong Weerasethakul (visto? impronunciabile…), cineasta che da vent’anni divide critica e pubblico ad ogni uscita nelle sale. Decisamente anticonformista – i più maligni lo definiscono ermetico e soporifero – per le scelte registiche e narrative (lunghissimi piani sequenza con la mdp immobile, campi medi e lunghi, pochissimi primi piani, scansione della narrazione anticonvenzionale nel sovvertimento della cronologia lineare), Weerasethakul concede ben poco alle modalità di fruizione e alle aspettative dello spettatore medio, stravolgendo le categorie di spazio e tempo a favore di un cinema del mistero e del perturbante che devono essere accettati come fatti assodati e non come semplici ipotesi. Da qui, il senso di straniamento dello spettatore di fronte a personaggi che convivono senza timore e con naturalezza con eventi e manifestazioni che trascendono le leggi della fisica e della comune percezione sensoriale: un invito, in altri termini, a lasciarsi andare al flusso del “sentire”, ad abbandonarsi ad una percezione che trascende i consueti piani temporali e a vivere l’esperienza cinematografica come una “liberazione” dai vincoli logici e categoriali del pensiero occidentale.
Boonmee decide di passare i suoi ultimi giorni (è gravemente malato di reni) nell’azienda agricola di famiglia, un appezzamento di terreno confinante con una jungla popolata da misteriose e inquietanti presenze, assistito dalla cognata Jen e dal nipote Thong. La trama (se di trama si può parlare) è costituita da quattro blocchi narrativi ben definiti. Nel primo assistiamo alla vita quotidiana di Boonmee alle prese con il lavoro nell’azienda e con la dialisi, non senza l’irruzione dell’elemento perturbante: durante la cena, fanno la loro apparizione a tavola il fantasma di Huay, la moglie di Boonmee, e il figlio Boonsong, scomparso da anni e ora riapparso sotto forma di scimmione ricoperto di peli e con gli occhi fiammeggianti ma in grado di ragionare e pensare: la serata passa così, come se nulla fosse, tra pacate e malinconiche discussioni sull’aldilà e la reincarnazione. Segue un intermezzo suggestivo: una principessa sfigurata si immerge nelle acque di un lago nella giungla, dove si accoppia con lo Spirito del Luogo, una divinità che si presenta sotto forma di un pescegatto parlante cui la donna dona i propri gioielli per recuperare la bellezza perduta; assistiamo poi alla morte di Boonmee (destinata, presumibilmente, ad una nuova rinascita), che si consuma in una grotta nella giungla, accompagnato dalla cognata, dal nipote e dal fantasma della moglie; infine, l’ultimo segmento si svolge in città, dove si celebra il rito funebre per Boonmee, e nella stanza d’albergo dove alloggiano la cognata con i due figli: Thong, il nipote di Boonmee, ha scelto la vita monacale ed è già in grado di separare la propria essenza spirituale da quella corporea. Con un ennesimo, inaspettato “salto di realtà”, si chiude la pellicola.
Zio Boonmee è un film ipnotico, affascinante e seduttivo nel suo tentativo di riprodurre il flusso di coscienza dei ricordi delle vite precedenti del protagonista, personaggio realmente esistito, almeno se si vuole dare credito al libro del monaco buddhista Sripariyattiweti A man who can recall his past lives: il bufalo che si aggira tra la vegetazione nella sequenza notturna di apertura è il primo dei ricordi di Boonmee e rimanda da subito al fil-rouge che tiene assieme i segmenti narrativi, quello della metempsicosi (legata, nel buddhismo, al kharma dell’individuo) e, più in generale, della metamorfosi, della trasformazione, intima Legge fondamentale del Tutto. La giungla, autentico luogo “altro” rispetto alla civiltà e alla città, fa da sfondo alla vita e alla morte di Boonmee: è essa stessa simbolo concreto del mistero che avvolge la vita, la “wilderness” in perenne mutamento di conradiana memoria in cui si annullano i codici e gli schemi razionali che accompagnano l’esistenza ordinaria; i suoi rumori (l’udito è per Weerasethakul senso fondamentale, più ancora della vista, come attesta la sua penultima fatica, Memory del 2021), lo scrosciare dell’acqua, i versi delle creature notturne che la popolano costituiscono la colonna sonora di tutto il film e contribuiscono, nel loro incessante prodursi, al senso di annullamento della scansione temporale e allo spaesamento spaziale, vere cifre del cinema del regista thailandese.
È il mistero del Tutto, dell’immersione panica, della Natura di cui siamo parte e che il pensiero occidentale si ostina a considerare come “oggetto” contrapposto al “soggetto”: la mancanza quasi totale di primi piani e il prevalere di riprese del paesaggio in campo lungo o medio testimoniano della volontà di attribuire da parte del regista allo spazio cosmico e alla sua sostanziale indecifrabilità il senso ultimo (e perciò inconoscibile) delle nostre vite, della morte e del cinema stesso. Cinema che, in questo caso, non spiega, non ipotizza, non categorizza ma, semplicemente, mostra. Ci crediate o no.
Lo zio Boonmee che ricorda le vite precedenti (Lung Bunmi Raluek Chat)
Regia: Apichatpong Weerasethakul
Distribuzione: Thailandia, UK, Francia 2010 (col., 113 min.). Disponibile su RaiPlay.